Il prossimo sovrintendente racconta i suoi progetti per Milano: riportare sul podio Muti e riscoprire il Settecento napoletano «Il Piermarini riferimento per l’opera italiana nel mondo»
«Quando arriva un nuovo incarico c’è un tempo per i sogni. E io ci sono dentro in pieno. Anche se bisogna andare cauti, tenerseli un po’ gelosamente per sé perché, si sa, svaniscono all’alba». La Staatsoper di Vienna ha chiuso i battenti per la pausa estiva, ma Dominique Meyer è nel suo ufficio. Lavora sulle scadenze del teatro austriaco. Ma guarda anche a Milano dopo la sua designazione, una settimana fa, come nuovo sovrintendente del Teatro alla Scala. «Da dieci anni sono a Vienna dopo essere stato il più giovane direttore dall’Opéra de Paris, dopo aver lavorato a Losanna e agli Champs-Élysées. E quando sei così fortunato non pensi di poter chiedere ancora di più. Invece è arrivata la chiamata del Teatro alla Scala» racconta il manager francese, 64 anni il prossimo 8 agosto, figlio di un diplomatico, formatosi tra Francia e Germania; una carriera iniziata al ministero dell’Industria, proseguita come docente di Economia all’università prima del passaggio in teatro: Parigi, la Svizzera, Vienna e ora la Scala. «Mi godo ancora per qualche momento il sogno».
Un sogno da psicanalizzare?
«No, anche se a Vienna abito a poche decine di metri dalla casa di Freud: ci passo davanti tutti i giorni andando in teatro, ma non entro. So che passato il tempo dei sogni viene il tempo dello studio e per me arriverà molto presto. E poi, inevitabilmente, sarà il tempo di decidere e agire. Mi sento pronto».
Cosa pensa abbia convinto il cda della Scala a puntare su di lei?
«Penso la mia lunga esperienza nei teatri lirici, la fitta rete di conoscenze con gli artisti che mi sono costruito in questi anni. Ma anche l’abitudine a trattare tanto sul fronte artistico che su quello economico. Penso di avere la capacità di fare squadra, ci ho sempre creduto e ho lavorato in questa direzione perché ritengo che le istituzioni siano molto più importanti delle persone che le guidano».
Quali progetti ha in mente per il Teatro alla Scala?
«Li sto ancora sognando. Sicuramente la Scala deve essere un teatro di riferimento internazionale per l’opera italiana. Tutto deve partire da qui».
Il suo mandato inizierà a metà del 2020 con un affiancamento con il sovrintendente uscente Alexander Pereira. Preoccupato di questa convivenza voluta dal cda?
«No, anzi. Una modalità necessaria che ho già sperimentato nei miei precedenti incarichi. Penso sia il modo giusto per imparare a conoscere il teatro da dentro e sono certo che mi servirà per evitare quegli errori che si rischiano di fare all’inizio se ci si butta di colpo nell’acqua fredda».
A Vienna ricopre i ruoli di sovrintendente e direttore artistico, una prassi comune in tutti i teatri d’Europa, adottata anche a Milano prima con Stephane Lissner e poi con Pereira. Avrà entrambi i ruoli anche alla Scala?
«Ne parleremo con il sindaco Sala quando ci vedremo per definire i dettagli del mio incarico. Sono disponibile a tutto, anzi non mi dispiacerebbe avere un direttore artistico italiano. L’importante è che ci sia chiarezza nei ruoli e che il sovrintendente possa esercitare tutte le sue prerogative. Chiedo e offro assoluta chiarezza e trasparenza».
Che ritmo produttivo immagina per Milano?
«La Scala è stato sempre un teatro di stagione ed è giusto rispettare la storia, non voglio certo trasformarlo in un teatro di repertorio come è la Staatsoper. Un modello che ho trovato al mio arrivo dieci anni fa in Austria, che ho imparato a conoscere, ma che non è pensabile di trasportare a Milano».
Quella scaligera è una macchina complessa a livello produttivo, ma anche amministrativo e per quel che riguarda la gestione dei rapporti con le maestranze.
«A Vienna i lavoratori sono riuniti in un unico sindacato: ogni categoria ha un suo rappresentante che si relaziona con la sovrintendenza. La cosa che ho sempre apprezzato è che vengono in ufficio con il problema, ma prospettando già anche una possibile soluzione. So che a Milano le sigle sono molteplici, ma mi piacerebbe ci fosse lo stesso intento propositivo».
Quali titoli, quali autori le piacerebbe programmare?
«Sicuramente il repertorio italiano, magari autori dimenticati come quelli del Settecento napoletano. Riccardo Muti nei suoi anni di direzione musicale li aveva riscoperti e valorizzati».
Il direttore d’orchestra napoletano è tornato con la sua Chicago symphony, ma non ancora a fare musica con i complessi scaligeri.
«Un altro sogno, quello di riportare Muti a Milano. Ho lavorato a lungo con lui, qui a Vienna abbiamo fatto Nozze di Figaro e abbiamo programmato Così fan tutte per la prossima stagione. Ero con lui nel 2005 nei giorni delle sue dimissioni dal Teatro alla Scala, stavamo lavorando alle selezioni del primo nucleo dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini: era molto triste. Vorrei provare a ricucire quella ferita».
Ha lavorato anche nella danza dirigendo le compagnie di Bejart e Preljocaj. A Vienna ha chiamato Manuel Legris per prendere le redini del Corpo di ballo.
«Abbiamo rilanciato la compagnia, dove sono presenti anche quindici danzatori italiani di grande talento. C’è una ricca programmazione che attira il pubblico. A Milano so che la situazione è già molto buona».
Da spettatore che musica le piace ascoltare?
«Tutta quella classica. In testa ho una specie di iPod e se ascolto un brano non individuo solo titolo e autore, ma anche l’interprete: d’altra parte dal 1987 sono praticamente ogni sera in teatro e a casa ho una vastissima collezione di vinili e cd».
E la musica leggera?
«Da ragazzo l’ascoltavo parecchio. Ora non c’è più spazio nel mio iPod».
La Francia, la Svizzera, Vienna e ora Milano, Si sente cittadino d’Europa?
«Mi piace molto questa dimensione e credo molto nell’Europa politica e culturale. Quando incontro gli studenti li invito a studiare diverse lingue, non solo l’inglese: dico loro che se non avessi saputo il tedesco non sarei arrivato alla Staatsoper di Vienna e se non avessi parlato italiano non sarei stato chiamato alla Scala».
A proposito, dove ha imparato così bene la nostra lingua?
«Seguendo un corso su audiocassette quando avevo 38 anni. L’italiano, poi, è pur sempre la lingua del melodramma».
Ha iniziato come economista poi è arrivata la cultura con la gestione dei teatri. Un ministro, qualche tempo fa, diceva che con la cultura non si mangia. Come la vede?
«Con la cultura si mangia, eccome. A Vienna il pubblico è per il 30% costituito da turisti che ogni sera riempiono sei o sette alberghi dando lavoro all’indotto. Questo lo sguardo dell’economista. L’operatore culturale, però, dice che tale aspetto è sì importante, ma non fondamentale perché – a Vienna come a Milano – dobbiamo dare al pubblico attraverso la musica qualcosa di buono per la mente e per l’anima».
Intervista pubblicata su Avvenire del 6 luglio 2019