Il soprano russo trionfa a Verona nell’opera di Giuseppe Verdi con la regia di Zeffirelli insieme a Yusif Eyvazov e a Luca Salsi
Ormai i telefonini sono una presenza costante. Dappertutto. Combatterli sembra una battaglia persa. Prendiamone – proviamo a farlo, almeno – il buono. Due cifre, 23 e 45, separate dai due punti. Compaiono sullo schermo (luminosissimo) di uno spettatore che, mentre la musica chiama un ritmo che sembra quello di una ninna nanna, cerca di attivare la fotocamera. Due numeri che, in qualche modo, restano impressi e segnano la storia. Un quarto d’ora prima di mezzanotte, Anna Netrebko attacca «D’amor sull’ali rosee». E basta una frase per avere la certezza di essere dentro la storia. In un sabato di giugno all’Arena di Verona. Mentre quel poco vento che si è alzato gira le pagine della partitura de Il trovatore di Giuseppe Verdi.
Lo capisci – di essere dentro la storia – da come il soprano russo cesella le note, da come scolpisce la parola, dai fiati lunghissimi, dagli acuti timbratissimi, dai pianissimi che corrono per lo spazio dell’Arena e ti arrivano come se fosse accanto a te a sussurrarteli. Tecnica, certo. Ma anche emozione. Poesia che per interminabili minuti ferma il tempo. Ferma i ventagli, ferma il caldo. Potenza della lirica. Potenza di un’interprete che si dimostra tale alla prova del palco. Esce come penultima agli applausi finali: d’altra parte il titolo dell’opera parla di lui, di Manrico, Il trovatore, ed è quindi giusto che la passerella la chiuda il tenore. Non c’è storia, però, l’applausometro va fuori giri per Leonora-Netrebko: personaggio del circo della lirica, indubbiamente, con copertine e interviste costruite ad hoc, ma soprattutto artista, perché senza il talento l’esposizione mediatica prima o poi finisce. La prova del fuoco all’Arena di Verona.
Un debutto atteso (e preparato) da un anno: giusto dodici mesi fa l’annuncio del sovrintendente Cecilia Gasdia che Anna e Yusif (il marito di lei, il tenore Eyvazov) a giugno 2019 avrebbero cantato in Trovatore aveva fatto scattare il conto alla rovescia. Arrivato a zero sabato con la prima del capolavoro di Giuseppe Verdi. Applausi interminabili, richiesta di bis che si prolunga anche quando dal podio Pier Giorgio Morandi da l’attacco al Miserere, ma si deve fermare perché il pubblico non si placa, vuole ascoltare ancora il D’amore sull’ali rosee. La poesia, però, non si può ripetere, è da gustare nel momento stesso in cui si crea. Va trasformata in memoria, in ricordo di qualcosa di grande. In storia. L’ha scritta Anna Netrebko, trionfatrice della serata per l’intelligenza musicale messa in campo, per la scelta (non scontata) di proporre la partitura in versione integrale (in più la regia, per rispettare l’esigenza di spettacolarità areniana, introduce anche i ballabili scritti da Verdi per la versione francese) con tutti i da capo di arie e cabalette. Così anche la Pira viene ripetuta due volte, con la curiosa puntatura al do che Eyvazov fa già nella prima esposizione. Eyvazov che, unendo solida tecnica (e studio, si sente da come arriva preparato in scena) alla sua voce antica e venata di malinconia, regge bene la prova di Manrico, tutto ripiegato su un dolore che si porta dentro. Lo stesso che ribolle nell’animo del Conte di Luna che Luca Salsi rende più uomo che eroe con un canto disarmante e vero.
Una serata costruita intorno ai nomi in locandina (e la risposta è stata un’Arena esauritissima): Netrebko ed Eyvazov, Salsi, oggi baritono verdiano di riferimento che scolpisce la parola con il suo canto. Riccardo Fassi, prestante Ferrando dalla voce tornita e sempre in parte. E poi Dolora Zajick, l’Azucena per eccellenza degli ultimi decenni che a Verona da’ l’addio al personaggio verdiano e anche ai grandi ruoli: ma l’applauso è più al passato che al presente di una voce ormai usurata, spezzata e in affanno tra acuti dimenticati e parole sbagliate con il risultato di aver mandato in tilt anche Eyvazov nel duetto del secondo atto.
Funzionale la bacchetta di Pier Giorgio Morandi, adatta e adattabile agli spazi e ai ritmi areniani: nessuna interpretazione rivoluzionaria, ma interessante la scelta di tempi ampi, quasi da marcia funebre che accompagna i personaggi verso la fine, verso una morte che aleggia nell’aria sin dalle prime note. E che arriva per tutti: Leonora muore avvelenata, Manrico va al rogo, il Conte di Luna muore dentro nel vedere distrutta per vendetta la sua famiglia, Azucena si pugnala dopo aver alzato il suo grido «sei vendicata o madre». L’ha voluto, segno del pessimismo più nero che cova in quest’opera verdiana, Franco Zeffirelli. Un kolossal, uno spettacolo nel quale entrare senza problemi e con una manciata di prove (la diva e il marito sono arrivati il 22 giugno, sette giorni prima del debutto) quello ideato nel 2001 da Zeffirelli, ulteriore omaggio dell’Arena, dopo la Traviata inaugurale, al maestro scomparso il 15 giugno: un medioevo duro e ferrigno, dove la violenza regola i rapporti umani quello raccontato da Zeffirelli in questo allestimento che, seppur all’ennesima ripresa, conserva intatta la magia della prima volta.
Una delle regie areniane più riuscite del maestro, che disegna i personaggi come piccole figure di uomini in balia di un destino più grande di loro, che li sovrasta e li schiaccia inesorabilmente: lo raccontano anche visivamente le scenografie imponenti (sempre firmate da Zeffirelli mentre i costumi sono di Raimonda Gaetani) con le tre torri e i guerrieri giganti (fratelli che si uccidono in guerra, rimando al libretto di Salvatore Cammarano) che incombono. Scenografie funzionali ad un racconto in dissolvenza cinematografica, serrato e compatto nella narrazione. Soluzioni spettacolari che scatenano l’applauso a scena aperta quando i gitani costruiscono a vista l’accampamento degli zingari o quando nel finale del secondo atto la grande torre centrale si apre e scopre l’altare di una chiesa che prende forma sul palco con statue dorate, ceri e cortei di religiosi. Immagini da catturare con i telefonini. Perché oggi la storia si racconta anche così, dallo schermo di uno smartphone. Con un «Pubblica» e un «Condividi».
Nelle foto Ennevi Il trovatore
Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 2 luglio