Schiller in scena nell’opera di Verdi ispirata alla sua tragedia nella regia tra teatro e letteratura del britannico David McVicar Intensi Mariotti sul podio e Oropesa e Sartori sul palco
Frustate. Secche, date a pantaloni abbassati. Mentre tutti guardano senza batter ciglio. Qualcuno, forse, gode in cuor suo di questa punizione. Qualcun altro sbianca e cerca di imparare la lezione. Friedrich Schiller, no. Friedrich Schiller che nell’immaginario del regista David McVicar è il quinto protagonista, muto, de I masnadieri di Giuseppe Verdi. Quinto o quarto bis, perché a tratti sembra il doppio di Carlo, il tenore figlio del basso, fratello del baritono che ama la soprano che è anche amata dal baritono. E che alla fine uccide perché lui, arruolatosi tra i banditi, non vuole vederla coprirsi di infamia: meglio la morte. Bell’amore… verrebbe da dire. Ma è una delle trame più assurde di Verdi (e di Schiller, appunto, perché il compositore prende il soggetto dall’omonima tragedia dello scrittore e filosofo tedesco) quella raccontata in musica ne I masnadieri. Opera in scena al Teatro alla Scala nei giorni caldi del cambio al vertice, con il (possibile) cambio della guarda alla sovrintendenza.
Certo, quando è stato scelto giungo 2019 per il ritorno a Milano de I masnadieri di Verdi (mancavano dalla Scala dal 1978 e prima erano andati in scena solo due volte nell’Ottocento) sicuramente che metteva nero su bianco il titolo non immaginava che la cronaca spiccia – politica ed economica con i tratti dello psicodramma – potesse in qualche modo rispecchiarsi negli (assurdi) intrighi raccontati da Schiller nella tragedia alla quale si ispirò Verdi per la sua opera datata 1847. Così la già ricordata lotta senza esclusione di colpi tra fratelli per la stessa donna fa pensare – con le dovute proporzioni, naturalmente – alla successione ai vertici del Teatro alla Scala (la donna contesa in Schiller e Verdi) in corso tra via Filodrammatici e palazzo Marino.
Atmosfera da guerra di successione che in teatro inevitabilmente si respira. Aleggiava (in scana, naturalmente, ma pure in platea) anche alla prima (funestata da qualche dissenso del tutto ingiustificato per regista e direttore) del nuovo allestimento de I masnadieri, firmato da McVicar e con Michele Mariotti sul podio. Spettacolo, quello del regista di Glasgow, che non vuole per forza dire qualcosa di nuovo o di attuale, ma che sa raccontare una storia (abbastanza assurda, come detto, con un re creduto morto, poi sepolto vivo) e tenere incollati gli spettatori alla narrazione. McVicar conosce i segreti del palcoscenico, muove masse e attori in modo impeccabile, raddoppia l’azione con mimi (movimenti coreografici di Jo Meredith) che non si soprappongono mai chiassosamente al canto. Elementi collaudati nel teatro d’opera, certo, ma realizzati benissimo. In più non rinunciando a proporre una (interessante) chiave di lettura, in questo caso il gioco metaletterario di sovrapposizione tra il protagonista Carlo e l’autore della tragedia: Schiller è onnipresente in scena, con fogli e penna pronto a mettere nero su bianco una storia che gli si presenta davanti agli occhi. È lui che viene frustato sulle note del preludio, è lui che decide di raccontare la storia che prende forma nella grande caserma dove è collocata tutta l’azione. Una storia che (pirandellianamente) chiede di essere narrata, personaggi che si materializzano da quadri e si fanno carne e sangue, portatori di sentimenti che – seppur elevati all’ennesima potenza dalla drammaturgia e dalla musica – sono di tutti.
Clima da sturm und drang per un racconto di formazione ambientato in una caserma militare, luogo dove tutto avviene: la scena (da quadro ottocentesco, costumi elegantissimi di Brigitte Reiffenstuel) di Charles Edwards, pressoché fissa, viene progressivamente devastata e distrutta nel corso dei quattro atti, sfregiata, bruciata, logorata, metafora dei rapporti umani che vanno in frantumi. Quelli della famiglia Moor.
Lotte di potere (e d’amore) tra fratelli per questo “primo Verdi”, come si dice, che riesce benissimo (da sempre, ma ogni volta il percorso di maturazione e sedimentazione nel braccio del passo verdiano è sorprendente) a Mariotti perché il direttore pesarese non lo tratta come un “Verdi minore”. Perché non lo è: tensione narrativa, spessore dato ai personaggi seppure nella fragilità della trama, costruzione musicale (c’è la tradizione, ma è ripensata secondo un gusto moderno e ancora oggi attuale) che fa vedere i capolavori verdiani che verranno. Basta crederci. Basta scavare nella partitura e le cose riescono (apparentemente) semplici. Dietro, naturalmente, c’è un grande lavoro di concertazione che si traduce in una direzione misurata, mai chiassosa o garibaldina, sempre attenta al dettaglio e allo stesso tempo all’insieme. Che esalta la scrittura vocale, a partire da quella del coro magnifico di Bruno Casoni.
Voci (quasi tutte) eccellenti, poi, quelle del cast a disposizione di Mariotti. Lisette Oropesa debutta trionfalmente alla Scala (il suo nome è stato annunciato in autunno dopo che per un po’ di tempo accanto al nome di Amalia c’era la scritta “da definire”) e va diretta in cima alle classifiche di gradimento della stagione accanto ad Asmik Grigorian applaudita nel recente Die Tote Stad: la Oropesa con la sua voce sontuosa, capace di svettare in acuto e di ricamare nei pianissimi, restituisce un’Amalia mai rassegnata, intrisa di belcanto, ma anche di accenti drammatici che danno tridimensionalità emotiva al personaggio. Fabio Sartori ha lo squillo, il colore e l’intensità musicale per Carlo, personaggio che scolpisce nel sentimento. Michele Pertusi è Massimiliano, il padre dei due contendenti Moor, e lascia il segno (in una parte che Verdi scrive abbastanza contenuta) con il suo canto tormentato e umanissimo. Meno in parte, per il peso vocale non sempre adeguato al ruolo di Francesco (e per qualche inciampo tecnico), Massimo Cavalletti.
Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 25 giugno 2019
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala I masnadieri