L’ultima regia del maestro ha inaugurato l’Arena di Verona Verdi kolossal con una scenografia da set cinematografico
Un Requiem per Violetta. Una campana suona a morto e rompe le chiacchiere del pubblico mentre sul palco entra un carro funebre trainato da un cavallo. Il corteo, scarno perché è pur sempre il funerale di una prostituta, si ferma. Un sacerdote pronuncia la benedizione, in latino, In nomine Patris et Filii… L’effetto, certamente non calcolato, arriva subito. A musica non ancora iniziata. Ed è abbastanza spiazzante nel caos dell’Arena, frastornata dagli applausi e dai «Grazie presidente!» al Capo dello Stato Sergio Mattarella e dalle note, cantante dai coristi dietro un’enorme tricolore, dell’Inno di Mameli. Cortocircuito tra realtà e finzione. Inizia con un pugno nello stomaco La traviata di Giuseppe Verdi con la regia e le scene – così dice la locandina – di Franco Zeffirelli. E diventa un Requiem per il maestro scomparso a Roma a 96 anni.
Qualche giorno prima a Firenze i funerali del regista toscano. Nemmeno il tempo di realizzare che non c’era più ed ecco il via alla stagione lirica dell’anfiteatro veronese con l’ultimo allestimento progettato da Zeffirelli. Progettato, ma non realizzato. Portato avanti dalla sua squadra di collaboratori dopo che il regista aveva dato la sua approvazione ai bozzetti, una sorta de “il meglio di…” otto Traviate realizzate nella sua carriera da Zeffirelli. La regia è “alla maniera di…”, ricca, cinematografica, kolossal. È indubbiamente zeffirelliana nell’impianto scenico, modellato sugli otto allestimenti realizzati dal regista nella sua carriera, quello al Metropolitan di New York, ma anche quello pensato per il cinema. Zeffirelliana in alcune idee che sono la firma inconfondibile del regista toscano: il funerale (ogni volta che ha fatto Traviata Zeffirelli è partito dalla fine, rifacendosi al romanzo di Dumas da cui Verdi ha tratto il soggetto della sua opera più popolare), la scenografia su due piani del primo atto con la stanza di Violetta sopra il salone delle feste, lo spettacolare (e, immancabile, parte l’applauso) cambio di set a metà del secondo atto con la casa di bambole che si apre e moltiplica lo spazio negli ori e negli specchi della festa di Flora.
Una Traviata in cinemascope dove l’azione si moltiplica in ogni angolo della scena senza mai distogliere l’attenzione dal cuore della vicenda, la storia d’amore (e di morte) tra Alfredo e Violetta. Perché, sembra di sentire il Cantico dei cantici, «forte come la morte è l’amore». Doveroso atto d’amore nei confronti di Zeffirelli quello dell’Arena di Verona, andato in mondovisione grazie alle telecamere Rai (a volte un po’ invadenti con una steadycam sulla scena) che in quattro giorni ha messo in piedi una diretta tv. Traviata pop anche per i volti tv in platea e per il bis fuori ordinanza (immancabilmente catturato dai telefonini) voluto dal direttore d’orchestra Daniel Oren che sugli applausi finali ha fatto partire il Libiamo invitando il pubblico a battere le mani sul ritmo della musica. L’effetto è di quelli che spiazzano… perché la tragica e disperata morte della protagonista dovrebbe lasciare posto al silenzio. Invece no, ecco risuonare le note dell’unico momento felice e spensierato dell’opera. A finire in gloria una serata trasformatasi in omaggio a Zeffirelli. La cui morte, forse, avrebbe richiesto silenzio – un Requeim, un silenzio come quello che piomba all’inizio, dopo i rintocchi della campana – invece che un battimani sul modello della Marcia di Radetzky al Concerto di Capodanno. Popolare (come è l’Arena) non deve per forza far rima con cattivo gusto.
Una Traviata, quella che rimarrà in scena a Verona tutta l’estate, che forse non è proprio il testamento di Zeffirelli: i suoi spettacoli definitivi sono altri, la Bohème del Teatro alla Scala (e del Metropolitan) che ha fatto scuola e segnato un cambio di passo negli allestimenti lirici facendoli diventare tridimensionali, ma anche l’Aida del 2001 di Busseto (che tornerà in scena in autunno prima al Festival Verdi di Parma e poi nel Circuito lirico lombardo, ulteriore occasione per ricordare il maestro). Sicuramente quest’ultima Traviata è un concentrato della sua arte e della sua idea di opera: far sognare, stupire, raccontare una storia. La storia di Violetta che appare subito, quando si apre il sipario che nasconde la grande casa di bambole della scenografia, nella sua stanza, al piano superiore. Si prepara per la festa, anche se la malattia la condanna già. Si va in scena, per l’ultima recita. Così la discesa delle scale, l’ingresso tra gli ospiti hanno un taglio cinematografico, l’occhio dello spettatore diventa la telecamera che inquadra l’azione, che se la costruisce seguendo il filo del racconto musicale in scena. Teatro nel teatro, nella vita di Violetta che deve mostrare un sorriso anche se soffre. Teatro nel teatro nella scenografia: accanto alla casa di bambole, a destra e a sinistra, i palchi di proscenio di un teatro, ancora una volta l’aggancio con il romanzo di Dumas, ma anche il chiaro segno che tutta la vita di Zeffirelli è stata in teatro, pubblica, raccontata attraverso i suoi spettacoli. I film e le regie liriche. Le scenografie – anche questa della Traviata veronese è una perfetta macchina dello stupore – e i costumi. Anche se questa volta portano la firma (lo stile è molto zeffirelliano, comunque) di Maurizio Millenotti.
Una macchina teatrale che genera meraviglia. Una lettura intima della vicenda di Violetta, inquadrata spesso dall’occhio di bue per dire che il cuore della storia è tutto lì. In una donna che soffre e muore. Lettura ripiegata e mai sfacciatamente teatrale anche quella offerta da podio da Daniel Oren che ha comunque la “colpa” di aver infierito con i tagli sulla partitura: da capo tutti aboliti, compresa la ripresa dell’Addio del passato, pagina che anche chi con la forbice va pesante lascia integrale. Più verista, a tratti sinistramente espressionista, quella degli interpreti. Aleksandra Kurzak veste i panni di Violetta e dopo un difficoltoso primo atto (con acuti smorzati o presi con abbondante preparazione), riesce meglio nei passaggi lirici e drammatici dei quadri successivi nonostante un canto che a tratti si fa declamato spinto. Pavel Petrov è un acerbo Alfredo, bella voce (forse ancora da irrobustire), ma dizione da sistemare soprattutto nel continuo raddoppio delle consonanti. Funziona scenicamente nel costruire un Alfredo ingenuo e in balia degli eventi. Leo Nucci è come sempre garanzia di un Germont inappuntabile, in stile vocale e scenico. Annina, come è diventato ormai tradizione, è un’interprete di lungo corso, in questo caso Daniela Mazzucato, perfettamente in parte come il marito Max René Cosotti nei panni di Giuseppe, servo di Violetta. Coreografie non indimenticabili di Giuseppe Picone, anche in scena con Petra Conti.
Tutti applauditissimi. A guardarli il sorriso di Zeffirelli che, illusione notturna, proiettato sui maxischermi sopra le gradinate sembra affacciarsi nel buio tra le stelle.
Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 23 giugno 2019
Nelle foto@ennevi Traviata all’Arena di Verona