Nel giorno dei funerali del regista fiorentino, scomparso a 96 anni, il ricordo del sogno nel cassetto di un ragazzino che voleva assistere a una prova della sua Bohème al Teatro alla Scala
Da qualche parte, in un cassetto, la lettera sulla carta intestata, coloratissima, del Baby show di JuniorTv deve esserci ancora. Quella con cui la redazione della rubrica che si chiamava Con noi lo puoi fare mi rispondeva, garbata, che il mio desiderio era «originalissimo e interessante. Ma forse difficile da realizzare». E come si fa per non spegnere i sogni di un bambino mi suggerivano di «non perdere le speranze. Faremo comunque di tutto per provarci». Ero in prima media. Anno 1987. Già guardavo cosa c’era in cartellone al Teatro alla Scala. Regalo del Natale 1986 era stato un biglietto per il Nabucco di Giuseppe Verdi diretto da Riccardo Muti, proprio il pomeriggio della Vigilia. E curiosando nelle pagine degli spettacoli dei giornali avevo scoperto che di lì a poco in programma al Piermarini c’era una Bohème con la regia di Franco Zeffirelli. Non sapevo ancora che era la mitica Bohème del 1963 di Karajan, di Pavarotti, della Freni… e di tanti altri (forse meno grandi) nel tempo. Ma sapevo che a fare la regia c’era Franco Zeffirelli. Quello che mi aveva fatto piangere (avevo sei anni e la maestra ci aveva portato al cinema) nella scena in cui Francesco si spoglia di tutto in Fratello sole, sorella luna. Zeffirelli che in casa veniva nominato spesso come un grande regista, il depositario della tradizione, di come si deve fare l’opera. Un po’ in contrapposizione con Luca Ronconi il sovvertitore (che sarebbe diventato poi anche lui un mito per me, un regista del cuore e della mente) che stravolgeva Verdi e Rossini.
Ecco l’idea, allora. Ho preso carta e penna e ho scritto a Con noi lo puoi fare. E se i miei coetanei (lo vedevo nelle varie puntate) chiedevano (e ottenevano) di passare un giorno in un parco divertimenti o agli allenamenti dell’Inter, io no: ho chiesto di assistere a una prova di regia di Franco Zeffirelli. Alla Scala, per Bohéme. Volevo conoscere il regista che tanto piaceva a mamma e zia e che era stato amico della Maria, intesa come la Callas, mito insuperato per la quale quando avevo due anni e mezzo (lei era appena morta a Parigi) ogni sera recitavo il Requeim aeternam. Quell’incontro non si è potuto fare, niente prova di Bohème con Zeffirelli. Ma non ho mai perso le speranze. Alla Scala quel Puccini l’ho visto da spettatore. Così come Verdi con il Don Carlo del 1992 (sul podio ancora Muti).
Poi un giorno del 1996, il 18 novembre, in università si inaugura un master sullo spettacolo. Relatore Franco Zeffirelli. Non mi lascio sfuggire l’occasione. Ascolto la lezione, poi mi faccio strada tra la folla e gli chiedo un autografo raccontandogli della mia lettera e del mio sogno (irrealizzato) di ragazzino. Me lo fa su un foglio degli appunti di Filosofia politica, azzurro. «A Pierachille, con l’augurio di poter realizzare (se lo vorà) le sue più belle speranze» la dedica che ancora conservo. Incontro con il mito. Il primo (allora non lo sapevo) di tanti. Perché una delle prime interviste della mia “carriera” è stata proprio a Zeffirelli: estate 2002 una chiacchierata sull’Aida faraonica all’Arena di Verona e su quella in miniatura di Busseto. Prima di tante interviste, nelle quali il regista sapeva sempre, come si dice in gergo, darti il titolo. Ancora Aida, per le 500 volte del capolavoro di Verdi a Verona e lui che ti racconta del progetto, mai andato in porto, di un film sul melodramma nell’Egitto di Sadat. Poi le chiacchierate per i vari anniversari di Maria Callas con gli aneddoti di un’amicizia.
Era un grande comunicatore Zeffirelli. Sul palco, nel portarti dentro il sogno dell’opera lirica: l’oro di Turandot, la festosa confusione di Bohème, la Sicilia bozzettistica di Cavalleria rusticana, le centinaia di comparse di Carmen e Aida. Ma anche le linee essenziali scelte per il suo teatro di prosa, il grigio geometrico dei Sei personaggi pirandelliani ad esempio. Comunicatore nella vita. Gli bastava uno sguardo – i suoi occhi azzurri, vivi anche quando il corpo si incurvava sotto il peso dell’età – per catturati. L’ho sperimentato. Tanti incontri nei palchi della Scala da dove assisteva alle riprese di tutte le sue regie, nelle cene dopo le prime in Arena. Nelle telefonate che ogni tanto gli partivano, solo per un saluto. «Teniamoci in contatto noi che amiamo la musica: siamo rimasti ormai in pochi» mi diceva salutandomi.
Non ce l’ha fatta, invece, a ripetermela l’ultima volta che l’ho incontrato a casa sua, nella villa immersa nel verde sull’Appia antica a Roma. Poche frasi. Dette con una voce flebile. Parole centellinate, per me un testamento spirituale che ho messo in un articolo. Lo rileggo ogni tanto. «Dobbiamo sperare. Solo quello. Affidarci e sperare. La fede è un dono, ne sono certo. L’ho avuto e devo tenerlo stretto» mi aveva raccontato seduto in giardino. «Mi metto spesso qui. Guardo la natura. Il cielo. E penso. Penso che il passato non torna. Ma non mi intristisco perché ho avuto una vita piena». Già guardava lontano. «Il Paradiso? Non penso che sarà un luogo dove la storia si ripeterà, ma immagino possa essere un luogo dei ricordi dove la nostra vita sarà compiuta dall’incontro con Dio».
Non ho scattato nessuna foto quel giorno. Non un selfie da postare (cinicamente) sui social. Non una posa davanti a uno dei tanti cimeli, pezzi di storia del Novecento, di cui la casa di Franco Zeffirelli è piena. Non mi interessa. Non mi interessava. Non ero lì per quello. Sentivo che stavo salutando un uomo che ha segnato inevitabilmente la mia crescita umana. E per questo i ricordi più belli di quell’incontro, l’ultimo incontro, li tengo nel cuore. Come le parole di quella lettera, scritta a mano da un bimbo di dodici anni, che voleva assistere alle prove di Bohème. Davanti alla quale, ogni volta, gli occhi mi si riempiono di lacrime. Le stesse che hanno solcato il mio viso davanti a Fratello sole, sorella luna. E che l’altro giorno, alla notizia che Franco Zeffirelli se ne era andato, sono rispuntate.