A Venezia l’opera di Giuseppe Verdi diretta da Riccardo Frizza Cantano i “debuttanti” Roberta Mantegna e Francesco Meli nella regia di Bolognini con le scene di design di Mario Ceroli
D’accordo che come va a finire Aida lo si sa da subito: Aida e Radames che muoiono sepolti vivi, Amneris, viva, a piangere il suo amato, ignara che la rivale sta andando con lui. Ma se qualcuno non lo sapesse può intuirlo già nella prima scena dell’Aida in scena al Teatro La Fenice. Quella firmata nel 1978 da Mauro Bolognini con le scene – che sembrano disegnate domani – di Mario Ceroli. Il palco è già diviso in due: un sopra e un sotto, un mondo dei vivi e un mondo dei morti, uno spazio dove il potere si fa vedere e uno dove l’amore si nasconde. Sotto intuisci già la tomba. Due anime danzano, stagliate su un cielo azzurro dischiuso, si liberano dei corpi e diventano puro spirito. Come succederà nel finale, quando Aida e Radames si stendono abbracciati nella tomba per iniziare insieme il grande viaggio. Intuizione che, in fondo, c’è nella musica, nel canto estatico dei violini del preludio che torna nel lunghissimo accordo finale. Basta seguirla, la musica, e la regia è fatta. In Verdi è così.
Verdi che da subito ha detto che Aida, a dispetto del Canale di Suez, degli elefanti e degli anfiteatri all’aperto, ha un carattere intimo. Opera da camera sembra eccessivo per un titolo conosciuto per la Marcia trionfale? Eppure ogni volta che la si ascolta – d’accordo, dipende anche chi c’è sul podio – si ha una conferma del carattere intino e introspettivo. Che non vuol dire mettere la sordina alle scene di massa. Anzi. Sbalzare i singoli caratteri sullo fondo della storia esaltando la scrittura, procedendo per opposti, il contrasto appare ancora più netto ed efficace. Procede così la lettura di Riccardo Frizza, un’Aida in dolby surround quella del direttore d’orchestra bresciano, che avvolge l’ascoltatore portandolo dentro la musica. In sintonia con la regia che proietta in avanti l’azione, mettendola tutta in proscenio, facendo cadere la quarta parete e tirando dentro il pubblico che diventa una sorta di testimone muto dei fatti, popolo e sacerdote, alter ego muto dei protagonisti come mute sono le sagome che Ceroli mette in scena, corpi in posizione dinamica che osservano quello che avviene.
L’effetto è assicurato. Effetto sonoro con Frizza che sa sempre restituire il passo teatrale del racconto in un riuscito impasto di tempi scattanti e abbandoni lirici, di squarci drammatici e respiri intimamente poetici. Un’Aida impastata di vita vissuta. Che Frizza tiene perfettamente in bilico nel suo essere kolossal e intima, attento, il direttore, ai due piani del racconto, quello politico con la lotta per il potere che vede contrapposti re e sacerdoti (il solito anticlericale di Verdi e la sua feroce critica al potere della Chiesa – che qui fa specchiare nella casta sacerdotale di Iside?!) e quello intimo dove si ripropone il triangolo borghese lei, lui e l’altra. Puntuale, Frizza, nel servire il canto e la parola verdiana. Moderna, modernissima. «Flutti di sangue scorrono sulle città dei vinti. Pensa che un popol vinto, straziato per te soltanto risorger può» canta Amonasro per spingere la figlia ad essere patriota. Pensi alle guerre che ancora oggi vedono popoli (fratelli) contrapposti.
Moderna, modernissima. Come è l’impianto scenico di Mario Ceroli, minimal, diremmo oggi, sicuramente spiazzante quarant’anni fa quando Aida era sinonimo di sfarzo. Funziona ancora nella geometricità dei luoghi evocati solo da una grande scalinata, tre piramidi (più solidi geometrici che monumento egizio) in prospettiva, due sfingi “a strati” che sembrano create con la stampante 3D, sagome di uomini. Oggetti di legno, oggetti artistici attorno ai quali si snoda l’azione. La regia di Bolognini – frontale e ieratica, quasi da oratorio, marcia trionfale compresa dove si vedono le non indimenticabili coreografie di Giovanni di Cicco – è ripresa da Bepi Morassi che scolpisce immagini suggestive con le luci di Fabio Barettin che illuminano i costumi (anche questi, nel taglio, moderni, quasi capi di alta moda) di Aldo Buti.
Li indossano Roberta Mantegna, Irene Roberts e Francesco Meli. Le donne debuttanti in nei ruoli di Aida e Amneris. Lui, Meli, Radames per la prima volta in Italia dopo aver debuttato la parte varato al Festival di Salisburgo con Riccardo Muti. L’Aida di Roberta Mantegna è lirica e drammatica: il soprano palermitano la disegna con una voce che ha corpo, volume, colori e con una tecnica che le consente di trovare suoni e sfumature poetiche (come nei Cieli azzurri del terzo atto) che arrivano dritti al cuore. Irene Roberts ha l’estensione vocale ideale per Amneris e un temperamento teatrale capace di catturare sempre l’attenzione. Meli ha fatto crescere il personaggio di Radames realizzando oggi un eroe che è prima di tutto uomo, che non si vergogna di mostrarsi anche fragile: la voce è quella bella di sempre e (sarà anche la felicissima acustica della Fenice) è ancora più robusta e rotonda. Qualche scatto veristico di troppo non “macchia” la prova di Roberto Frontali, solido Amonasro. Pe Ramfis c’è la nobiltà vocale di Riccardo Zanellato.
Nelle foto @Michele Crosera Aida alla Fenice di Venezia