Alla Fenice delude l’allestimento della regista Cecilia Ligorio dell’ultima opera del musicista diretta con piglio da Callegari Cantano Oksana Dyka, Walter Fraccaro e Carmela Remigio
Se fiaba deve essere che fiaba sia. Ma fino in fondo. Crudele, senza censure, come devono essere tutte le fiabe per poter essere davvero formative, perché la sofferenza tempra e fa crescere, perché il viaggio dell’eroe attraverso le prove lo cambia per sempre. Onirica, capace di trasportare in un altro mondo, il mondo delle fiabe, appunto, che assomiglia a quello reale, ma che ne deforma sinistramente i contorni. Contenitore, sicuramente. Ma anche contenuto del racconto perché specchio della vita, capace di amplificarne i vizi e moltiplicarne le virtù.
Turandot, fiaba teatrale di Carlo Gozzi è questo. E come tutte le fiabe è, prima di tutto, destinata ai bambini. Sono loro che attraverso il racconto devono sperimentare quello che vivranno una volta diventati adulti. Adulti che vorrebbero vivere – o forse si illudono di farlo – nel mondo delle fiabe, prolungando all’infinito un’infanzia consolatoria. Così si innesca un cortocircuito tra realtà e finzione, ma anche tra generazioni. Che ci sono tutte nella trasposizione in musica (su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni) che Giacomo Puccini ha fatto della fiaba di Gozzi. Turandot ultima opera del compositore toscano, lasciata incompiuta e poi completata da Franco Alfano: la storia è risaputa con Arturo Toscanini che alla prima del 26 aprile del 1926 al Teatro alla Scala posa la bacchetta al termine della scena della morte di Liù. Chiusura perfetta per una fiaba che deve insegnare la vita. La speranza, la capacità di guardare avanti deve essere la risposta. Invece, ma è il meccanismo della fiaba, c’è il lieto fine. Baci e abbracci, mano sul cuore, sorriso raggiante… e vissero tutti felici e contenti.
Capita anche nel nuovo allestimento di Turandot in scena al Teatro La Fenice di Venezia, firmato dalla regista Cecilia Ligorio che dopo una (brutta) Semiramide di Rossini non riesce a vincere nemmeno la sfida di un Puccini che lasci il segno. Ed è un peccato perché le premesse, appena alzato il sipario, erano buone. Una cornice nera un po’ liberty (ma anche un po’ Kita kat club di Cabaret) ad inquadrare un palcoscenico vuoto che si popola di un’umanità fatta di operai, folla che richiama la Cina (Gozzi e Puccini ambientano il racconto a Pechino) di Mao. Una visione alla Bertolt Brecht – che di favole e parabole era esperto – didascalica e straniata. Il mandarino che ricorda al popolo di Pechino la legge di Turandot è in doppiopetto e impermeabile. Ping, Pang e Pong sono maestri di cerimonie (sempre Cabaret) in abiti di velluto rosso. I personaggi della fiaba, invece, Tutandot e Calaf, Liu, Timur e Altoum abbigliati (quasi) filologicamente. I mimi che evocano i morti (i principi che non hanno risolto gli enigmi) in vestiti (i costumi sono di Simone Valsecchi) dal taglio orientale.
E qui le cose iniziano a non funzionare. Perché non si capisce quale linea interpretativa la regista voglia proporre: fiaba, appunto? realismo? sogno straniato? Stili e linguaggi si mischiano, ma non si fondono. Così non c’è fiaba, ma nemmeno vita reale. E tra alcune cadute di stile (le guardie in versione tartarughe ninja che torturano Liù) e immagini già viste (la neve che cade sulla scena degli enigmi e si scioglie quando Calaf risolve gli indovinelli o i bambini che doppiano i personaggi di Ping, Pang e Pong) restano alcune visioni, anche interessanti: Altoum in versione nonno che racconta la storia di Turandot come monito ai piccoli vestiti di bianco, il praticabile sospeso dove Tutandot è chiusa nella sua solitudine, le luci (lampadine) sospese che si accendono creando un cielo stellato sul Nessun dorma e si spengono con la morte di Liù.
Immagini firmate dalla scenografa Alessia Colosso, intervenuta in corsa nel progetto che dove essere una nuova tappa della collaborazione tra Fenice e Biennale arte e firmata per scene e costumi dall’artista visiva veneziana Monica Bonvicini. Immagini che, però, nella regia della Ligorio non si parlano. E che finiscono per non parlare perché affidate alla gestualità più tradizionale dei cantanti: il vuoto in scena è una bellissima idea, ma anche un a grande sfida perché va riempito.
Sicuramente lo riempie di suono dal podio Daniele Callegari, attento al dettaglio della partitura, padrone della scrittura pucciniana e abile nel tenere insieme musica e voci. Ma tutto a un volume forte e fortissimo con la conseguenza di appiattire il racconto e il suo essere cardiogramma sonoro dei pensieri e dei sentimenti dei protagonisti. L’effetto è potente, un muro di suono che impatta sul pubblico. E che le voci riescono comunque a varcare. Oksana Dyka ha volume e acuti (a volte l’intonazione traballa, però) per disegnare una Turandot anaffettiva che nemmeno alla fine riesce a sciogliersi in modo convincente. A Calaf offre la sua sicura professionalità Walter Fraccaro. Carmela Remigio, impeccabile come sempre, è una risoluta Liù. Dal terzetto delle maschere di Ping, Pang e Pong emerge per voce avvolgente e intelligenza scenica Alessio Arduini. Lasciano il segno anche le voci Simon Lim e Marcello Nardis, l’uno ripiegato Timur, l’altro Altoum amorevole e affettuoso con i ragazzi del Kolbe children’s choir.
Alla fine la fiaba c’è, ma edulcorata, non crudele (non una goccia di sangue, nemmeno nelle teste mozzate che sono maschere, teste di manichini innocui) e onirica come dovrebbe essere. Troppo quotidiana e, paradossalmente, lontana dalla vita così come proprio le fiabe ce la fanno vivere e sperimentare nella sua crudeltà, ma anche nella sua pienezza.
Nelle foto @Michele Crosera Turandot alla Fenice di Venezia