Alla Scala l’oratorio di Händel con orchestra e coro inglesi che l’8 maggio chiudono il tour a Roma a Santa Cecilia Cantano Louise Alder, Carlo Vistoli e Gianluca Buratto
Sembra di sentirlo il «Te l’avevo detto» del padre e della sorella di Semele. Perché a sfidare gli dei ci si fa male. Non si può vincere. Infatti, puntuale, lo conferma il mito. Quello della fanciulla innamorata di Giove più per la sua immortalità (che anche lei vorrebbe) che per la sua bellezza. Che fugge con lui, ma spinta sull’orlo del precipizio dalla rivale Giunone, resta scottata (letteralmente perché le sembianze divine che chiede a Giove di mostrare nel momento dell’amore la folgorano) e muore.
Semele raccontata da Georg Friedrich Händel nel suo oratorio profano. Semele arrivata al Teatro alla Scala come prima delle due tappe italiane – mercoledì 8 si replica a Santa Cecilia a Roma – del tour barocco con il Monteverdi choir e l’English baroque soloists di John Eliot Gardiner. Una serata di festa per i sessant’anni dell’Opera San Francesco per i poveri di Milano, che dal 1959 offre cibo, vestiti, un riparo a chi non ha casa e lavoro. Festa nei lunghi minuti di applausi al termine di un’opera in forma semiscenica, ma ricca di teatro su una partitura che, come ogni oratorio, di azione ne prevede poca. Regia di Thomas Guthrie (anche se alla fine delle tre ore i movimenti da passerella di avanspettacolo un po’ di ripetono), costumi elegantemente contemporanei di Patricia Hofstede, luci che dal buoi traggono le forme di Rick Fisher.
Barocco all’ennesima potenza con la bacchetta di Gardiner. Un’esecuzione in stile inglese sino al midollo. Misurato, mai sguaiato (a parte la scelta di affidare a una Lucille Richardot un po’ sopra le righe il doppio ruolo di Ino e Giunone), elegantissimo. Un velluto, una seta, un ricamo negli intrecci musicali dell’orchestra, nelle voci perfette, intonatissime, musicalissime e teatralissime insieme del coro. Voci che con uno sguardo evocano un’immagine. Con un suono creano un mondo. Quello del mito che parla a noi.
Cantanti in proscenio a raccontare un mondo dove l’ambizione incontrollata porta sull’orlo del precipizio. Quella di Semele è una corsa, quasi cosciente, verso una fine annunciata. L’accompagna una musica che ha tutti i colori della vita nella direzione tesa e morbida di Gardiner. Non c’è sangue, non c’è rabbia. C’è, piuttosto, una malinconia, una nostalgia di fondo nella lettura del direttore britannico, austero nella figura durante tutta l’opera, pacatamente sorridente quando i nodi si sono sciolti: Semele è morta, il suo promesso sposo Athamas sposerà la sorella di lei, Ino. E la memoria della ragazza resterà come monito.
Louise Alder è una Semele dolente, pacata anche nel momento di massima ambizione con la svettante (e applauditissima) aria Myself I shall adore. Il suo canto si spegne in un silenzio straniante. Che lascia un vuoto. Riempito dal compianto del coro, ma anche dal Despair no more shall wound me di Athamas che il controtenore Carlo Vistoli esalta con la sua vocalità piena e morbida. Gianluca Buratto offre le sue note scure ai personaggi di Cadmus e Somnus, Hugo Hymas è un musicale intonato Giove, giovane nella voce e nella figura, quasi a evocare l’adolescenza (sua e di Semele) che deve sperimentare l’amore, anche rischiando, per imparare a vivere.