L’opera di Aribert Reimann ha inaugurato il Maggio musicale Sintonia perfetta tra il regista spagnolo e Fabio Luisi sul podio Bo Skovhus protagonista nei panni del re shakespeariano
Si dice (forse si diceva, qualche tempo fa…) «levarsi il pane di bocca». Inteso come sacrificio, anche estremo. Per aiutare qualcuno, in genere i propri figli. Togliersi l’essenziale, togliersi tutto per dare loro il necessario, ma anche un sorriso, un momento (superfluo?) di felicità. Lear si leva il pane di bocca. Letteralmente. Perché il regno che divide tra le figlie – stanco di governare, deciso a passare il potere a chi gli dirà il suo amore nella convinzione (che poi si rivelerà falsa) che la parola è legame e impegno – è una pagnotta. Frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Segno forte, immagine folgorante che Calixto Bieito ha scelto per dare subito le coordinate della sua regia del Lear di Aribert Reimann che ha inaugurato l’edizione numero ottantadue del Maggio musicale fiorentino dedicata a Potere e virtù. Rimando, nel suo riferimento eucaristico, a un darsi totalmente, a un lasciare il proprio corpo/pane come un’eredità viva e palpitante della quale nutrirsi come con il pane, appunto. E della quale essere degni. Il dramma di William Shakespeare è una lucida analisi della follia umana, di quella che è conseguenza estrema e nefasta della sete di potere. Fame di pane. Sete di potere. Che non viene mai saziata nella terra brulla e inospitale della scena lignea e grigia di Rebecca Ringst illuminata dalle luci di Franck Evin: non un segno di vita, non una goccia d’acqua, non una lacrima che scorre tra le assi di legno (lo spettacolo nato all’Opera de Paris sta benissimo nella cornice del Teatro del Maggio) prima affiancate a disegnare un muro respingente e impenetrabile, poi mosse per evocare una foresta-labirinto dove perdersi e ritrovarsi.
Bieito restituisce il trattato sulle passioni umane di Shakespeare intatto nella sua disarmante semplicità. Nessuna provocazione, nessuna sovrastruttura. Solo la forza della parola e della musica, inscindibili nel dramma di Reimann e del librettista Claus Henneberg che prende la tragedia e ne estrae l’essenza: gli episodi che raccontano la lucida follia di Lear, di Kent, di Edgar e del Fool, il dolore di Gloster e di Cordelia, la cieca ottusità di Goneril e Regan ci sono tutti. Ma l’opera, più che un andamento narrativo, ne assume uno meditativo, si fa riflessione sull’uomo. Nudo (letteralmente in Lear che si spoglia di tutto, nel Fool che non nasconde il suo fisico piegato dal tempo) nelle sue fragilità. Diventa un momento in cui obbligare l’ascoltatore a guardare dentro se stesso.
Il regista spagnolo lavora per sottrazione, toglie il contorno (oggetti e decori, ma anche gli aspetti più elisabettianamente splatter del racconto) e si concentra sul gesto, sul dettaglio che racconta l’anima. Fa recitare gli attori con una semplicità e un’immediatezza disarmante. Fa delle vicende di Lear qualcosa di quotidiano, di contemporaneo al nostro mondo senza calcare per forza la mano su un’attualizzazione fatta di cellulari e tablet che avrebbe comunque meno forza. E, senza nessun artificio, inquieta ancora di più perché avvicina tutto quel male a noi. Così, nel silenzio iniziale, il gruppo di personaggi che si raccoglie in scena diventa lo specchio di chi è seduto in platea: i vestiti (disegnati da Ingo Krügler) sono gli stessi, eleganti, a volte comicamente eccessivi. Lo sguardo fisso su di noi che siamo seduti in platea non può non portarci dentro la storia. Che inizia all’improvviso, spiazzandoti, colpo di teatro di Reimann – l’ottantatreenne compositore tedesco era in sala alla prima del 2 maggio – che affida alla sola voce di Lear le prime parole del testo, quelle che allungano subito l’ombra della tragedia. La musica arriva dopo, dissonante, a dire che il mondo, quel mondo che si vede in scena, oggi come nel 1978 come ai tempi di Shakespeare, è sull’orlo del baratro.
Per colpa di un potere abusato, un potere interpretato e vissuto come unico scopo di una vita che si svuota presto se non ha qualcuno o qualcosa da soggiogare. Potere che il re non vuole più, che distribuisce in modo sbagliato tra le figli che dicono di amarlo e che subito gli si ritorce contro, gettandolo in una follia che gli farà, alla fine, vedere davvero la verità delle cose. La vedrà lui abbracciando il corpo senza vita di Cordelia. La vedrà l’ormai cieco Gloster ritrovando il figlio Edgar che aveva bandito dal suo cuore. Ma senza speranza. Non c’è nella distesa dei cadaveri che resta quando la musica si spegna nel silenzio, come nel silenzio era iniziata. Non c’è nella musica di Reimanm che dal podio Fabio Luisi restituisce nella sua bellezza sinistra, sghemba e inquietante. Il musicista genovese, direttore musicale del Maggio, ha tecnica e braccio per governare la ragnatela musicale della partitura, ma ha soprattutto cuore per illuminare di umanità un racconto che se visto solo nel suo essere radiografia di una follia collettiva rischierebbe di essere fredda cronaca di una morte annunciata. La musica è una lama tagliente che entra nella carne viva, in perenne contrappunto ad un canto che è inaspettatamente lirico, a tratti quasi morbidamente consolatorio, sicuramente a più facce e colori, capace di passare dalla melodia più dolce al duro parlato rimarcato del tedesco del testo.
Parola che non vive senza la musica. Musica che non vive senza il gesto, senza l’immagine. Senza il teatro. Perché Lear è uno dei vertici del teatro musicale del Novecento. E così va vissuto. In teatro. Pronti a ricevere in faccia secchiate di acqua gelata. Che è il male, che è il dolore che Reimann, Luisi e Bieito gettano in faccia senza troppo pudore. Lo fa, con la sua intensissima prova, anche Bo Skovhus, Lear granitico nella voce e nel gesto, musicale nel canto e nel movimento, commovente nel suo curvarsi sempre più sotto un dolore che prima che fisico è dell’anima ferita perché tradita. Kent, che bandito da Lear si traveste da clochard per restare vicino al re, è Kor-Jan Dusseljee, Gloster, che impara dalla vita a vedere oltre le cose, è Levent Bakirci. Edgar ha la voce penetrante del controtenore Andrew Watts, Edmund quella del tenore Andreas Conrad. Voci diverse, per caratteri e temperamenti diversi, per le figlie di Lear, la Cordelia di Agneta Eichenholz, la Gonerill di Angeles Blancas Gulin e al Regan di Erika Sunnegårdh. Il Fool, voce (non cantante, ma attore) narrante e alter ego di Lear, è Ernst Alisch. Tutti salutati da un applauso lungo dieci minuti. Applauso non scontato. Applauso impregnato di inquietudine.
Nelle foto @Michele Moansta Lear al Maggio musicale fiorentino