Al Teatro dell’Opera Anna Bolena diretta da Riccardo Frizza Maria Agresta debutta e vince nel ruolo che fu di Maria Callas Una gabbia domina la regia minimalista di Andrea De Rosa
Donizetti ti spiazza sempre. Ti prende in contropiede, per dirla in termini calcistici visto che mercoledì 20, quando al Teatro dell’Opera di Roma ha debuttato un nuovo allestimento di Anna Bolena erano diversi gli schermi dei telefonini che si illuminavano per cercare il risultato di Atletico Madrid- Juventus, partita di andata degli ottavi di finale di Champions league. Cellulari illuminati nella speranza di un gol che, però, per i bianconeri non è arrivato: 2 a 0 il risultato finale. Con piccola grande gioia di Riccardo Frizza, interista doc, impregnato sul podio. E, come gli altri interisti presenti in sala (nonostante tutto ce ne sono ancora!), impossibilitato a concedersi distrazioni (e piccole soddisfazioni) calcistiche. Anche perché sul palco era in corso una (quasi) partita di calcio, un derby, se così possiamo definire l’incontro-scontro tra Anna Bolena, seconda moglie di Enrico VIII, e Giovanna Seymour, dama che ha preso il posto della regina nel cuore (e naturalmente poi sul trono) del re.
Dicevamo di Donizetti che ti prende in contropiede. Ti spiazza ogni volta che ti senti rassicurato da una frase musicale, da un accento, da una cadenza che – pensi – non potrà che andare a finire in un certo modo. Quel modo che hai in testa e che il belcanto ha codificato. Ma con il compositore di Bergamo salta qualsiasi schema. Specie nella Bolena, capolavoro musicale (anche drammaturgicamente pregevole nel libretto di Felice Romani) che a Roma (dove è in scena sino al 1 marzo) Frizza ha proposto in versione integrale: tre ore e un quarto solo di musica. Con Donizetti saltano gli schemi sin dalla sinfonia, sghemba che evoca atmosfere più che raccontare quello che verrà, prepara la scena, fa emergere dal nulla i contorni della storia. Che è – più o meno – quella che conosciamo dai libri di scuola. Enrico VIII – che cambiava spesso moglie – stanco di Anna e già innamorato (ricambiato) di Giovanna (l’amica più cara di lei) cerca un pretesto per rompere il matrimonio; lo trova richiamando in patria il promesso sposo (poi abbandonato) di Anna, Percy, vorrebbe usarlo come trappola, ma l’occasione per accusare la moglie di tradimento e mandarla al patibolo gliela offre la distrazione del paggio Smeton che si fa sorprendere in camera della donna.
Raccontata così potrebbe essere una serie tv di quelle che oggi vanno per la maggiore, una stagione della saga dei Tudor. Donizetti ci mette del suo e fa di una vicenda storica l’occasione per riflettere sul potere e sull’ambizione. Ci mette anche una buona dose di sentimento quando Anna riconosce che invece che al trono doveva aspirare all’amore puro e disinteressato che le offriva Percy. Ma è troppo tardi. Per lei sono già pronti il cippo e la scure. E mentre lancia il suo «Coppia iniqua» subito seguito dal «l’estrema vendetta non impreco in quest’ora tremenda. Nel sepolcro che aperto m’aspetta, col perdono sul labbro si scenda» ecco che ad assistere all’esecuzione arrivano Enrico VIII e la nuova regina Giovanna. Uno dei pochi colpi di scena di una regia che sembra rinunciataria di Andrea De Rosa.
È tutto nella musica il successo di questa Bolena che parte con accordi mozzafiato dell’orchestra dalla quale Frizza ottiene un suono compatto, pieno e cangiante dalla brillantezza alla mestizia. Ritmo, ma anche abbandono nella lettura del direttore sempre attento a non mettere sovrastrutture alle note, ma a restituire senza mediazioni o filtri la scrittura di Donizetti, ad assecondarne gli scarti, ad esaltarne tutta la disarmante bellezza. Musica, quella che arriva dall’orchestra, sempre al servizio della parola e del canto (se una pecca si può trovare nel cast è nella non sempre corretta dizione da parte di tutti gli interpreti perché capita che il testo scivoli via avvolto dai suoni) affidato a una squadra vocale ideale.
Maria Agresta debutta e caparbiamente vince la sfida di affrontare un ruolo sul quale pesano fantasmi del passato (su tutti quello di Maria Callas) e attese dei melomani; ruolo da maratoneta nella sua vastità che il soprano (applauditissimo anche a scena aperta) domina con tecnica solida e voce capace di acuti svettanti e ombre malinconiche. Carmela Remigio affronta da soprano il ruolo da mezzosoprano di Giovanna Seymour, temperamento e talento sono quelli di sempre messi in campo (anche in questo debutto) con una facilità che sorprende. Alex Esposito canta (bene) da tempo Enrico, con la sua voce piena e spesso spinta all’estremo dell’espressione lo fa spietato e duro, calcolatore, politico più che amante. Martina Belli disegna un puntuale e trasognato Smeton. René Barbera è Percy: voce squillante, acuti svettanti, tecnica belcantistica, tutto ciò che chiede Donizetti. Forse manca l’interpretazione. Ma qui si apre il discorso sulla regia.
De Rosa dopo Maria Stuarda affronta un altro capitolo (che temporalmente arriva prima) della saga dei Tudor messa in musica da Donizetti. Lo fa con lo stesso impatto visivo: pareti tra il rosso cupo e il nero, costumi più ottocenteschi che cinquecenteschi (l’abito con il quale Anna sale al patibolo, bianco con i lunghi guanti rossi, è lo stesso del supplizio di Maria), palco quasi spoglio (e non sempre è un vantaggio per le voci), alcuni arredi che tornano, così come torna l’idea dei riflettori che nel finale, quando Anna (allora era Maria) va a morte calano dall’alto ad accecare il pubblico. Qui l’idea è la gabbia, per raccontare una Bolena braccata, prigioniera della sua ambizione. Gabbia che incombe dall’alto. Gabbia di cui è fatto il letto di Anna dentro il quale, una vota scoperto il (falso) tradimento sarà rinchiusa. Gabbia di cui sono fatte le pareti della torre (la Bolena morì nella Torre di Londra il 19 maggio 1536) che domina la scena del secondo atto (la struttura metallica sembra quasi una delle impalcature che erano l’ossatura scenografica dell’inaugurale Rigoletto di dicembre), prigione e patibolo. Un’idea: scene di Luigi Ferrigno, costumi di Ursula Patzak. Per il resto – al netto di evidenti errori come alcuni spostamenti su e giù dalla torre che lasciano chi parla (canta) senza interlocutore per diversi attimi – lo spettacolo viaggia sul filo della tradizione: chi ha più la stoffa di interprete arriva vero in platea, gli atri si affidano ai soliti gesti. Qualche dissenso per la regia. Applausi unanimi, convinti per i cantanti e per Frizza, donizettiano doc, alla guida del Donizetti opera festival di Bergamo per una sera trasferitosi (con i suoi vertici) nella Capitale.
Nelle foto @Yasuko Kageyama Opera di Roma Anna Bolena