A Modena l’opera di Giordano sugli anni del Terrore in Francia Saioa Hernandez debutta Maddalena, Sgura eccellente Gerard
Raccontato come in un manuale di storia. Un saggio sugli anni bui della Francia, quelli intorno al 1789. Perché il confronto con Andrea Chénier di Umberto Giordano non può prescindere dalla Storia. Che assume un respiro, diciamo un taglio cinematografico nel racconto del compositore che propone in quattro pianosequenza (la partitura è pensata in quadri, non in atti) momenti della Rivoluzione francese. Ai quali si intreccia la storia d’amore tra Andrea, il poeta, e Maddalena, la contessina caduta in disgrazia. Una storia durata anni che possono sembrare, però, anche un giorno vissuto intensamente. Potenza della lirica di condensare emozioni.
Andrea Chénier visto come un quadro in un museo. Di quelli davanti ai quali fermarsi a lungo perché consentono di ricostruire filologicamente il contesto dell’epoca. Scene corali dipinte sulla tela, quasi istantanee fotografiche, reportage in presa diretta di momenti di (stra)ordinaria follia. E soprattutto Andrea Chénier ascoltato ancora una volta (ma l’effetto, per riuscire, deve essere quello della prima volta) come una lezione di vita dalla quale imparare per (provare a) non commettere più gli stessi errori. Gli errori della Storia, di chi decapita il passato per tentare di ricostruire con nuove (?) istanze e nuovi (?) ideali istituzioni e coscienza civile, facendo leva sul malcontento (forse fomentato ad hoc). Errori di chi si fa chiamare cittadino per dare alla conquista del potere una parvenza di democraticità che, però, alla prova dei fatti non regge. Perché la conquista si sporca le mani con il nero delle storture che i proclami additavano come i mali della società.
E qui scatta il corto circuito. Perché raccontata così la storia sembrerebbe presa dalle pagine della cronaca politica dei quotidiani di oggi. In realtà quella in scena è la Storia di un popolo. Di Carlo Gerard e compagni (Luigi Illica nel libretto li nomina tutti, Robespierre, Barère, Collot d’Herbois, Couthon, Saint Just, David, Tallien, Fréron, Barras, Fouché, Le Bas, Thuriot e Carnot), rivoluzionari improvvisati. Alcuni, come lo stesso Gerard, pentiti perché hanno toccato con mano che la rivoluzione divora i suoi figli.
Così Nicola Berloffa (ri)legge filologicamente e veristicamente Andrea Chénier, capolavoro verista, appunto, di Giordano che mette in scena la Rivoluzione francese. Dalla quale non si può prescindere nel portare in scena il «dramma di ambiente storico» scritto per il Teatro alla Scala nel 1896. Ma che si può rileggere alla luce di quello che, poi, gli anni del Terrore hanno (dovrebbero aver) insegnato. Berloffa, per la sua regia che venerdì 15 ha debuttato al Teatro Comunale Pavarotti di Modena (una coproduzione con Municipale di Piacenza, I teatri di Reggio Emilia, Ravenna manifestazioni, Regio di Parma e Opéra de Toulon dove andrà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi), porta il pubblico nelle gallerie di Versailles con le scene di Justin Arienti e i costumi di Edoardo Russo: abiti filologicamente impeccabili, ispirati al gusto inglese che negli anni della rivoluzione influenzava la moda parigina; ambienti ispirati (anche qui filologicamente) alle fotografie del canadese Robert Polidori che qualche anni fa ha catturato nei suoi scatti le stanze di Versailles di Luigi XV, pareti con tappezzerie che si staccano dai muri, intonaci a due colori a evocare gli spazi dove un tempo stavano le grandi tele.
Un racconto che si svolge tutto in interni, illuminati dalle luci sempre drammaturgicamente efficaci di Valerio Tiberi. Il salone di casa Coigny diventa di volta in volta il ponte Peronnet, il tribunale e il cortile delle prigioni di San Lazzaro in un percorso di progressiva scarnificazione degli ambienti/dell’ambiente che è sempre lo stesso a dire l’autoreferenzialità e il senso claustrofobico della storia rivoluzionaria. Dentro e fuori sono luoghi mentali dove si intrecciano le storie e la Storia dipinta su grandi tele. Quella di Maria Antonietta crolla alla fine del primo quadro e scopre i rivoluzionari intorno ad una ghigliottina che sarà sempre in scena, oggetto ingombrante intorno a cui tutto ruota: le grandi arie dell’opera dal Temer perché di Bersi (che sa di avanspettacolo) al Sì fui soldato di Chénier sino alla Mamma morta di Maddalena vengono cantate proprio ai piedi dello strumento di morte. A dire che non c’è scampo.
Un racconto verista, quello di Berloffa, perché mette in scena la realtà. Così come è stata. Senza mediazioni. Con la violenza barbara dei rivoluzionari che mettono da parte qualsiasi umanità. Con la ferocia sinistra del popolo forcaiolo che vuole sangue. Tanto che «la mamma morta» che Maddalena canta nel terzo quadro la si vede in scena, alla fine del primo quadro, quando i servi di casa Coigny rivelano il loro volto di rivoluzionari e uccidono la Contessa. Tanto che la Legray, la donna che Maddalena salva sostituendosi a lei sul patibolo, non scappa dalla prigione, ma resta in carcere perché la sua condanna e quella dei suoi due bimbi è solo rimandata. Variazioni sul tema che rendono ancora più dura la storia del libretto di Luigi Illica che arriva tutta, raccontata con gran ritmo per immagini in un continuo passaggio tra scene corali e momenti intimi. Perché l’amore che finirà sulla ghigliottina di Andrea Chénier e Maddalena di Coigny si muove sullo sfondo della Storia. Ne è condizionato. Una storia che arriva nella sua inquietante modernità, data dai fatti della nostra Storia, certo, per quel che riguarda il clima “rivoluzionario” sbandierato da certa politica, ma anche della necessaria riscoperta del valore del sacrificio.
Perché Andrea Chénier racconta la forza dell’amore. Lo fa con una musica (a dispetto di ciò che ha sostenuto certa critica) raffinatissima, capace di emozionare, di arrivare dritta al cuore. Fatta di miniature e di respiri epici, di temi che tornano e si intrecciano, di melodie che è difficile non cantare. Popolari nel senso più bello del termine. Aldo Sisillo dal podio restituisce la partitura così com’è, senza particolari letture. Il colore è lo stesso nell’evocazione di un Settecento di maniera nel primo quadro come nei momenti più eroici, il ritmo abbastanza sostenuto, ma a volte, specie nei momenti intimi, eccessivamente slentato. E se non fosse per il ritmo teatrale dello spettacolo e per gli interpreti in scena il rischio noia sul fronte musicale sarebbe in agguato. Martin Muehle è un consolidato Chénier che sa come risolvere al meglio una parte impervia. Claudio Sgura svetta come Gerard (che nella regia di Berloffa ha un’evoluzione psicologica marcata, come non si vede di frequente) grazie a una voce eccellente e a una tecnica impeccabile. Saioa Hernandez debutta come Maddalena e convince specie nei momenti in cui la parte si fa più lirica e la voce del soprano spagnolo è libera di dispiegarsi in tutta la sua ampia bellezza; ne esce un personaggio dolente di una donna segnata dalla vita e capace di tratte da questa insegnamenti. Incisiva la Bersi di Nozomi Kato. In linea con la direzione le prove di Antonella Colaianni Madelon, Shay Bloch la Contessa di Coigny; Alfonso Zambuto l’Incredibile, Stefano Marchisio Roucher.
Nelle foto @Rolando Paolo Guerzoni andrea Chénier al Teatro Comunale di Modena
Qui il video della diretta streaming di venerdì 15 febbraio dal Comunale di Modena di Andrea Chenier