Non solo il Tu scendi dalle stelle di sant’Alfonso de’ Liguori Un racconto dei Vangeli con le note di Monteverdi e Bach ma anche con quelle di Otello e Macbeth di Verdi
Tu scendi dalle stelle, o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo. Le note, conosciutissime sin da bambini, del canto di Natale per eccellenza. Quello di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Ed è subito Vigilia.
Stop. Fermiamoci un attimo. Forse questa musica ci potrebbe stare per un Natale di quelli da cartolina o da biglietto d’auguri elettronico che gira sui social. Con l’albero pieno di palline d’oro e d’argento, la neve che scende sulla capanna e le lucine a intermittenza. Ma, forse, non è il Natale di Betlemme. Quello delle porte chiuse in faccia a Maria e Giuseppe, quello dei pastori, gli ultimi della società, che vengono a dare conforto a Gesù condividendo con lui il poco che hanno.
«Non obbedirei al mio dovere se vi dicessi Buon Natale senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire» scriveva don Tonino Bello. E per disturbare, per infastidire cenoni e scambi di auguri non servono certo le immagini forti che i tg dei giorni di festa confezionano per raccontare un «Natale di solidarietà». Basta il Vangelo. Che mette uno di seguito all’altro i fatti. Ripercorriamoli. In musica, attraverso le pagine che, nei secoli, hanno raccontato il palpitare del cuore di Maria nel pronunciare il suo «Sì» all’Angelo, lo stupore dei pastori di fronte a Gesù nella mangiatoia. Che è poi lo stupore dell’uomo che ancora oggi si lascia interrogare dal mistero del Natale.
Una storia che inizia da lontano. In una casa di Nazareth. «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Nulla è impossibile a Dio». Alle parole dell’Angelo risponde Maria. «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». Le parole dell’Angelo, quelle che ritornano nell’Ave Maria. Giuseppe Verdi le mette in bocca a Desdemona, sul suo letto di morte, nell’ultimo atto di Otello, opera datata 1887. Una preghiera asciutta nella sua semplice melodia. Desdemona non chiede qualcosa per sé. Chiede a Maria di pregare «pel peccator, per l’innocente, e pel debole oppresso e pel possente». Il suo sguardo, come quello di Maria che pronuncia il suo «Sì», si allarga al mondo. Anche al nostro. Che soffre. E che loda.
Una storia che prosegue in un’altra casa, in una città della Giudea, nella casa di Zaccaria dove Elisabetta «appena ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò: Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo». Stanca, pur incinta, ha affrontato un lungo viaggio per far visita alla cugina. E risponde al saluto della cugina con le parole del Magnificat. Claudio Monteverdi, nel 1610, mette in musica l’inno di lode di Maria. Il compositore, che ha inventato il melodramma lo vuole asciutto, diretto.
Antonio Vivaldi, invece, in pieno Settecento fa esplodere la gioia di Maria nella polifonia di voci che qui, agli ordini della bacchetta di Riccardo Muti, si rincorrono per raccontare come «il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore». Un ritratto che richiama un’icona così come la musica che Johann Pachelbel ha messo sulle parole della preghiera con il suo cantus firmus. Che in un ponte ideale attraversa i secoli e arriva sino al Magnificat datato 1989 di Arvo Pärt.
Qualche mese dopo. E Maria deve affrontare un altro viaggio. Da Nazareth a Betlemme. Ancora più faticoso, perché il parto è imminente. Si mette in cammino perché «un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra». Nella città di Davide «si compirono per lei i giorni del parto». Fuoco nel marmo. Luigi Cherubini racconta il mistero. Lo fa nel Credo della Messa solenne in re minore per il principe Esterhazy. «E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» scrive Giovanni. Et incarnatus est compare sul pentagramma: dal silenzio il soprano evoca «la luce che viene nel mondo». Racconta come Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo».
Et incarnatus est. Il cuore del Credo che molti compositori raccontano con lo stupore della luce che si irradia dalla grotta di Betlemme. Lo fa Johann Sebastian Bach nella Messa in si minore.
Lo fa Wolfgang Amadeus Mozart nella Messa in do minore. Lo fa Ludwig van Beethoven nella Missa solemnis.
Freddo. Le doglie del parto. E poi il pianto liberatorio del piccolo Gesù. Giuseppe Verdi ferma il volto della «Vergine madre, figlia del tuo figlio» nella grotta di Betlemme. Prende l’incipit del XXIII canto del Paradiso di Dante e lo mette in musica, in uno dei suoi Quattro pezzi sacri, le Laudi alla Vergine Maria, pagina composta nel 1890, quando la parabola operistica del musicista sta per chiudersi. E il tempo si ferma.
Come in Bach. Il musicista nel cuore del suo Oratorio di Natale – il Weihnachtsoratorium scritto nel 1734 per Lipsia – esattamente a metà di tutta la composizione, mette un breve corale nel quale l’uomo, di fronte al mistero dell’incarnazione dice «Voglio imprimere nella mia mente finché vivrò questo momento». Il tempo si ferma anche fuori Betlemme. «C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce». Lo spavento lascia spazio presto allo stupore. E al canto del Gloria in excelsis Deo che Gioachino Rossini illumina di una luce ultraterrena nella sua Petite messe solennelle, pagina che il compositore di cui nel 2018 si ricordano i centocinquant’anni dalla nascita, scrisse nel 1863.
I pastori senza indugio vanno a Betlemme «E trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore». Un canto sembra accompagnare questa lode. Una ninna nanna. Lullaby di George Gershwin.
Ed ecco un fermo immagine. I pastori se ne vanno in punta di piedi, «lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto». Azzardiamo una conclusione. Un canto sommesso. Dal Macbeth di Verdi, opera su un tiranno sanguinario. Agli antipodi rispetto al Natale. Nel terzo atto, stremato dalle profezie delle streghe, il re si abbandona, sviene sopraffatto dagli eventi. E le streghe invocano gli «aerei spirti» per confortare Macbeth: «Ridonate la mente al re svenuto». Cristo nel Natale ridona la mente all’uomo annebbiato, illumina il nostro dolore. Si fa uomo, compagno di strada di tutti. Ondine e silfidi dall’ali candide su quella pallida fronte spirate. Tessete il vortice carole armoniche, e sensi ed anima gli confortate. Ecco questo canto dolcissimo, una ninna nanna, un canto quasi di angeli che Verdi regala come luce che squarcia il male. La luce di Gesù nel Natale.
Nella foto l’Adorazione dei pastori di Andrea Mantegna conservata al Metropolitan Museum of Art di New York