Il direttore inaugura la stagione del Teatro dell’Opera di Roma con una lettura rivoluzionaria e visceralmente verdiana Protagonisti intensi Roberto Frontali e Lisette Oropesa
Di notte, nel buio della stanza, l’unica cosa che ci dice che siamo vivi è il battito del cuore. Rimbomba, amplificato dal silenzio. Sembra quasi di sentirlo quando il buio inghiotte la luce. Quando il silenzio che può essere irreale (silenzio delle voci, silenzio degli schermi di pc e smartphone) un po’ fa paura. Perché ti costringe ad ascoltarti. La notte che amplifica tutto. Dentro e fuori.
È notte quando Rigoletto e Sparafucile si incontrano per la prima volta. Buio e silenzio e nebbia. È notte quando i cortigiani per una vendetta che sa di noia rapiscono Gilda. Non fanno rumore, si muovono a tentoni. È notte quando la ragazza muore, pugnalata (perché si è fatta pugnalare) al posto dell’uomo che ama. Nessuno sente, nessuno vede. Potrebbe essere tutto un sogno. Immaginazione? O ricordo, anche lui immerso nella nebbia della mente. Eppure il cuore di Rigoletto batte. Batte forte. Gli dice che è vivo, in quel momento. Vivo nonostante tutto nella notte dell’esistenza, quando un altro buio avvolge la sua mente rischiando di annientarla.
Lo senti il cuore del gobbo nella sconvolgente direzione (perché scardina le certezze con le quali vai all’opera a sentire un titolo popolare) di Daniele Gatti. Lo senti pulsare come nel silenzio della notte raccontata da Giuseppe Verdi, scelta come atmosfera di una vicenda intima, immersa nel buio, appunto. Quasi lo vedi il cuore che batte, nella forma d’onda di un cardiogramma, che si fa tracciato sonoro e che attraversa tutta la lettura, che ti fa mancare la terra sotto i piedi, del direttore d’orchestra milanese. Gatti con il Rigoletto di Verdi ha aperto la nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Ovazioni per il musicista, quasi a suggellare la notizia della sua nomina a direttore musicale della fondazione lirica capitolina. Un successo che ha anche il sapore del riscatto, perché il musicista è tornato sul podio per un’opera dopo le accuse di presunte molestie (mai una denuncia alle autorità, però, di fatti che risalirebbero a vent’anni fa) da parte di due cantanti, accuse che in estate lo hanno visto rimosso (frettolosamente e in modo troppo repentino per non far pensare a retroscena inespressi) dal suo incarico di direttore musicale al Concertgebow di Amsterdam.
Ora Gatti ha una nuova casa. E in questo Rigoletto c’è il suo cuore. Batte forte nel pizzicato dei contrabbassi, sale in gola nel pulsare dei timpani. Il cuore di Daniele e il cuore di Rigoletto. E dunque il nostro cuore di uomini. Perché Verdi racconta di un padre che deve mettere una maschera, mentire agli altri, a se stesso. Come non specchiarsi? Non può mentire (non possiamo mentire) al suo (nostro) cuore, però. Che continua a battere, quasi una condanna peggiore della morte quella di portare il peso di una vita dove tutto sembra non avere più senso.
Parte dal silenzio e nel silenzio (e nel buio) si spegne il Rigoletto di Gatti: essenziale e scarno, lento e meditativo (i tempi staccati dal direttore lo imparentano ancora di più di quello che siamo abituati ad ascoltare a Traviata e Trovatore). Verdiano fino al midollo perché rispetta alla lettera la partitura, fa piazza pulita (lezione già di Riccardo Muti, certo) degli acuti aggiunti nel tempo, che il compositore non aveva scritto e che rompono la tensione drammaturgica: non servono, quello che è essenziale è scritto. Un Rigoletto ruvido come la vita nel raccontare senza mediazioni una storia di miseria senza riscatto, di violenza senza giustizia, di sconfitta senza possibilità di speranza. Che, nelle intenzioni, era la stessa storia che avrebbe voluto raccontare il regista Daniele Abbado, portando le vicende del libretto ispirato a Victor Hugo nelle atmosfere inquiete e sghembe di perversione mista a violenza (che è quello che c’è nell’immaginario comune) della Repubblica di Salò.
Operazione che, però, non riesce come forse dovrebbe (e i dissensi sonori di buona parte del pubblico dicono che forse il messaggio non è arrivato). Ed è un peccato perché la tensione musicale che sale dall’orchestra avrebbe richiesto maggior corrispondenza sul palco. Regia continuamente in bilico tra realismo e simbolismo, senza una sintesi convincente, tanto che idee seppur belle restano irrisolte, come il finale straniante con Gilda che mentre canta il Lassù in cielo vicino alla madre avanza verso il pubblico, anima che lascia il corpo: interessante, ma che arriva dal nulla, senza un prima né un dopo. Racconto collocato in una scena unica (disegnata, come le luci, da Gianni Carluccio) fatta di ponteggi metallici abitati da frammenti di case anni Quaranta con i protagonisti (vestiti da Francesca Livi Sartori ed Elisabetta Antico) che fanno, però, il solito Rigoletto: il giullare gobbo, Gilda ragazza fragile, il Duca libertino.
Manca, sembra mancare nella messinscena di Abbado – forse poco coraggiosa, che poteva andare fino in fondo alla scelta dell’ambientazione fascista, mostrando molto di più l’orrore e le miseria del regime, con il pregio comunque di non disturbare mai la musica –, uno scavo psicologico. Che c’è, invece, nella direzione di Gatti che ha scomposto e ricomposto la partitura di Verdi sviscerandone ogni piega, analizzando il perché di ogni nota, concertando nel dettaglio suoni e voci: così il canto arriva vivo, tutto calibrato sulle intenzioni del racconto (gli a parte, le maldicenze della corte che non devono essere sentite non sono urlate, ma dette sottovoce), teatrale anche a costo di chiedere uno sforzo in più ai cantanti nel piegare la voce all’emozione.
Tanto che commuove l’adesione di Roberto Frontali al personaggio di Rigoletto, ripiegato su se stesso e sul proprio dolore che non è mai esibito, ma trattenuto. Sussurrato. Detto tra i denti con un canto che a volte si fa parlato. La voce increspata del baritono romano funziona alla perfezione perché arriva in tutta la sua disarmante verità. Ancora più inquietante del solito, quando acuti e puntature si sprecano per tirare l’applauso. Che arriva raramente a scena aperta perché quello di Gatti è un racconto (come d’altra parte lo è in Verdi) senza respiro. E allora niente acuto d’ordinanza dopo la prima volta de La donna è mobile, il si naturale arriva solo quando la melodia risuona fuori scena, ghigno beffardo del Duca (affidato alla prestanza fisica, ma alla voce non sempre convincente di Ismael Jordi) che si è sottratto alla vendetta di Rigoletto, perché – amara constatazione – è lui che ha vinto. Il ghigno beffardo del Duca, quello nero dello Sparafucile di Riccardo Zanellato e quello fintamente pudico della Maddalena di Alisa Kolosova. Lo sguardo sinistro dei cortigiani in doppiopetto e borsalino, di Carlo Cigni (Monterone) e Alessio Verna (Marullo), Saverio Fiore (Borsa). Inquietante come inquietante è la risolutezza che Lisette Oropesa, grazie a un canto impeccabile e a una voce che conquista da subito, offre a Gilda : il suo Caro nome (con la cadenza originale scritta da Verdi) è una riflessione sull’amore, il Tutte le feste al tempio diventa la dichiarazione di libertà di una donna che, pur tradita, vuole comunque amare e andare fino in fondo al suo destino. Inquietante perché il suo cuore, nel buio, schiacciato da questo dolore più che piagato dal pugnale, smetterà di battere.
Articolo pubblicato in buona parte su Avvenire del 4 dicembre 2018
Nelle foto @Yasuko Kageyama Opera di Roma Rigoletto