Il regista veneziano inaugura la stagione del Teatro La Fenice con l’opera di Giuseppe Verdi ispirata a William Shakespeare Racconto un uomo disperato che ha perso il senso della vita
Un palloncino. Un triciclo. «Perché Macbeth è la tragedia di una perdita». La perdita di una figlia. Damiano Michieletto rilegge così, con una regressione del protagonista che cerca dovunque la bambina morta, l’opera che Giuseppe Verdi ha tratto dalla tragedia di William Shakespeare. Venerdì 23 si apre la nuova stagione del Teatro la Fenice di Venezia con un nuovo allestimento del melodramma verdiano. Sul podio Myung-Whun Chung. Protagonisti Luca Salsi e Vittoria Yeo, Macbeth e la Lady raccontati da Michieletto nella quotidianità di una coppia «perché l’unico modo che trovo per relazionarmi con questi personaggi è di farli vivere in una dimensione umana, portandoli con i piedi per terra».
In Verdi e in Shakespeare non lo sono, Damiano Michieletto?
Macbeth, nella letteratura e nella musica, appare come un mito, un eroe, una figura storica. Una dimensione che, però, ce lo allontana. Ecco perché ho voluto trattarlo come un uomo, un uomo che diventa re suo malgrado e che alla fine muore perché non riesce più trovare una prospettiva per la sua vita. Questa è la tragedia di Macbeth, la stessa di una persona che si suicida perché non ha più un contatto con la realtà e non trova più un significato alla vita. Nel monologo finale della tragedia di Shakespeare il re dice «Domani… domani…domai…» come se questi domani non avessero più nessun senso, nessuna prospettiva. Così Macbeth racconta le stesse sensazioni che vive un uomo del nostro tempo che si ritrova in una condizione per cui il domani non ha un senso: quando non c’è un significato, una ragione per vivere è chiusa ogni possibilità alla luce. Questo è il buio in cui si ritrova Macbeth e per il quale muore. Nell’allestimento che va in scena a Venezia non ci sarà la scena finale in cui il re muore in battaglia ucciso da Macduff come se fosse un guerriero. Non ci sarà perché la sua non è una battaglia contro qualcuno, la sua battaglia l’ha già persa: lo dice bene in Shakespeare, nel monologo che precede la battaglia: «Vestiamo l’armatura almeno moriremo con l’armatura addosso» dice il re sapendo già che il suo destino è la morte, una morte data dalla disperazione, dalla solitudine dall’isolamento, dal fatto che è una persona che non ha seguito la sua natura, ma è stato costretto, manipolato, strumentalizzato dalla moglie in una situazione che non gli apparteneva.
Citi spesso Shakespeare: sei partito dalla tragedia del Bardo per la tua regia?
Sono partito da Shakespeare allo stesso modo in cui Verdi è partito da Shakespeare. È naturale fare questo lavoro per un regista: così come un musicista parte da un testo e scrive la musica, tu parti da un testo per capire l’ispirazione di quell’autore, quali sono le cose a cui ha rinunciato, ma che sono parte del testo, dei personaggi, della natura che ha voluto raccontare. Un libretto sacrifica molti passaggi narrativi – ed è giusto che sia così per esigenze drammaturgiche. Ma quando un compositore è capace di farlo – e Verdi è capacissimo – la musica ti restituisce tutto il pathos emotivo e psicologico del racconto originario. La musica ha questo potere e va usata così. Registicamente poi devo nutriture i personaggi di un background, una storia, una psicologia che è quella shakespeariana. Devo riuscire anche a dare un senso, un valore, un’identità al mondo delle streghe, a dargli un perché, una fisionomia sempre non perdendo di vista il fatto che non parliamo mai di qualcosa di lontano da noi, ma di sofferenze e tragedie che riguardano la vita e dunque riguardano anche noi. Questa è la cosa che ci rende queste storie affascinanti, ma anche capaci di turbare perché la tragedia ci mostra sempre il lato più oscuro e disperato della vita.
Il tuo spettacolo inizia da un lutto, la perdita di una figlia.
Uso il preludio di Verdi per una sorta di incipit della vicenda, per raccontare qualcosa che ha spaccato l’unione tra la coppia, qualcosa che si incunea nell’animo di Macbeth e inizia a spaccarlo, la morte della figlia, appunto. Una morte che la Lady rifiuta, un passato che vorrebbe chiudere con un lucchetto perché non riemerga mai più: la Lady diventa così sempre più insensibile, disperata nella sua ricerca di identità che si muta in ambizione al potere da conquistare ad ogni costo.
In Macbeth che effetti provoca questa morte?
Produce una sorte di regressione all’infanzia. Un desiderio di avere sempre questa figlia presente, di averla continuamente viva, sempre accanto a lui. Le voci che gli arrivano, i vaticini delle streghe, questa presenza dell’innaturale allora non sono altro che allucinazioni del re, il desiderio che questa figlia torni, quasi accompagnata dai morti che le ridanno vita: il mondo delle streghe è il mondo dell’aldilà, dei defunti, della morte.
La riflessione sulla morte e sulla follia caratterizza i tuoi ultimi spettacoli dal Rigoletto di Amsterdam alla Damnation de Faust di Roma sino a questo Macbeth. Come mai queste tematiche in questo momento della tua vita e della tua carriera?
Parto sempre dal confronto con il testo e uso sempre la mia fantasia per ragionare su cosa quel testo ci dice oggi. Questi sono temi che riguardano l’uomo e che ciascuno nutre delle proprie esperienze di vita riguardo alla nascita e alla morte: la vita è una bolla in questo tempo, tra questi due estremi. E la bolla è un elemento che uso in scena: il coro crea bolle con il nylon per dire che siamo solo un’aria che si alza e respira per il tempio che ci è dato di vivere sino a quando questa bolla si sgonfia inaspettatamente – lo farà anche nello spettacolo – e come inaspettatamente si è creata così svanisce.
Una riflessione dettata da tue esperienze di vita?
Non ho avuto esperienze di lutti dolorosi, di perdite di persone care. So che quando arriveranno, come arriveranno per tutti, occorrerà riuscire a non perdere la prospettiva, il senso e la fiducia nella propria esistenza per non creare quella frattura che potrebbe farci diventare tanti piccoli Macbeth.
Dal tuo racconto, dalle immagini delle prove dello spettacolo si intuisce una lettura astratta, più simbolica che realistica, come i tuoi recenti allestimenti. Una nuova direzione per il tuo lavoro registico?
Forse le mie letture stanno andando in questa direzione, di racconto simbolico e astratto. Ma non è una scelta programmatica: mi lascio sempre guidare da quello che la storia mi comunica e le storie che ho raccontato recentemente mi hanno portato su questo terreno. Lascio sempre il mio istinto libero di annusare come un segugio che insegue la preda, che non sa dove si trova, ma ha il fiuto e il fiuto gli fa fare un percorso che neanche lui sa dove lo condurrà. Lavoro così, ci metto il naso e vado dove mi porta, con il rischio, a volte, di non trovare niente e di dover ripartire.
Quali i prossimi terreni in cui metterai “il naso”?
A fine marzo sarò all’Opera di Francoforte per Der ferne klang di Franz Schreker. A giugno al Festival di Pentecoste di Salisburgo farò Alcina di Haendel con Cecilia Bartoli. Sarà la mia prima regia di un’opera barocca, prima, spero, di una lunga serie: il Barocco è un mondo misterioso, affascinate e spirituale, quanto di più lontano dall’idea di melodramma a tinte forti, magari verista con le grandi voci, le grandi orchestre, le battaglie, le guerre. Nell’opera barocca tutto è filtrato, l’orchestra è leggera, le voci sono leggere, c’è sempre un grande uso delle similitudini, delle metafore, della mitologia: potrebbe sembrare qualcosa di artefatto e lontanissimo da noi, ma paradossalmente lo trovo un universo efficacissimo per raccontare la nostra sensibilità e la nostra vita.
Myung-Whun Chung dirige per la prima volta il melodramma Luca Salsi e Vittoria Yeo nei panni del re scozzese e della Lady
Macbeth di Giuseppe Verdi inaugura il 23 novembre la nuova stagione del Teatro La Fenice di Venezia. Sul podio di orchestra e coro veneziani Myung-Whun Chung che per la prima volta dirige il titolo che il compositore di Busseto ha tratto dall’omonima tragedia di William Shakespeare: scritta nel 1847 per Firenze, venne rivista nel 1865 per Parigi. Versione, quella che Verdi considerava definitiva, che si ascolterà a Venezia, ma anche il diretta su Radio Tre a partire dalle 19. «Macbeth racconta di due persone che vogliono dominare su tutti gli altri: figure come queste, accecate dalla volontà di potere, costituiscono in ogni epoca e luogo un grande pericolo per l’umanità. E quest’opera, anche se il soggetto è scuro e violento, serve a noi tutti per capire quanto quella droga che è la smania di potere sia terribilmente radicata nell’uomo. Come sempre la musica riesce a far passare un determinato messaggio a livello più alto rispetto alle sole parole. Queste ultime restano nella testa, mentre la musica entra nel cuore e nello spirito di ogni essere umano» racconta il direttore d’orchestra sudcoreano che ancora una volta il 1 gennaio 2019 sarà sul podio del Concerto di Capodanno. Macbeth, che sarà in scena sino al 1 dicembre, è la nona regia che Damiano Michieletto realizza per Venezia: con lui la sua squadra formata dallo scenografo Paolo Fantin, dalla costumista Carla Teti e dalla coreografa Chiara Vecchi. Protagonista nei panni del re scozzese Luca Salsi, Macbeth di riferimento degli ultimi anni, ruolo che in questo 2018 ha interpretato a Firenze con Riccardo Muti e a Parma in apertura del Festival Verdi. La Lady sarà Vittoria Yeo, arrivata in corsa durante le prove a sostituire l’indisposta Tatiana Serjan. Banco è Simon Lim, Macduff Stefano Secco, Malcolm Marcello Nardis. Diretta social su Twitter e Instagram con l’hastag #macbeth.
Nelle foto @Michele Crosera Teatro la Fenice le prove di Macbeth di Verdi