La tragedia di Sofocle riletta in musica da Richard Strauss torna alla Scala con l’ultimo spettacolo del regista francese Intensi Dohnányi sul podio e Ricarda Merbeth in scena
Non c’è catarsi. Quella che, al liceo, ti spiegavano essere la ragione sociale della tragedia greca. Il motivo che giustificava delitti e sangue in palcoscenico: vederli per esorcizzare le paure, osservarli per allontanare da sé un possibile istinto omicida. Ora c’è solo il vuoto. La disperazione di due occhi persi nel nulla. Perché la tragedia greca riletta dal Novecento non può che diventare lo specchio di un mondo dove l’orrore non fa più scandalo. Non indigna. Perché visto e rivisto, sino alla nausea. Così Elektra, quella scritta nel 1909 da Richard Strauss, diventa la tragedia della disperazione, di una vendetta fine a se stessa che (come tutte le vendete, forse) non lascia il sapore della vittoria, ma getta nella follia.
Elektra che Strauss ha messo in musica sul libretto – che asciuga e reinterpreta la tragedia di Sofocle filtrandola con umori e fermenti novecenteschi, primi fra tutti quelli psicanalitici – di Hugo von Hofmannsthal. Elektra riletta da Patrice Chéreau, ultimo spettacolo diretto dal regista francese, scomparso nel 2013 subito dopo il debutto dell’allestimento che, sino al 29 novembre, torna al Teatro alla Scala.
Gli occhi persi nel nulla sono quelli della protagonista, Elettra. Ha covato nel suo cuore sentimenti di odio, ha meditato vendetta contro la madre Clitemnestra e l’amante di lei Egisto per l’uccisione del padre Agamennone. E, alla fine di un’ora e quarantacinque di musica senza respiro, ora che la vendetta si è compiuta per mano del fratello Oreste, la sua vita sembra non avere più scopo. Non c’è catarsi, non c’è purificazione. Solo disperazione. Perché Oreste se ne va, torna nell’ombra dalla quale era emerso per compiere la strage, lasciando sola (e folle) la sorella che vagheggia una danza rude, quasi immobile. Una danza di morte. Che, effetto straniante, trasmette quasi un senso di disperante tenerezza. Quasi di pace. La musica di Strauss regala momenti di respiro nel vortice di violenza che il compositore crea per raccontare in musica la tragedia: c’è l’arpa prima dell’omicidio di Egisto, ci sono echi di valzer che fanno venire in mente il Rosenkavalier.
Una tenerezza che, forse, è quella che ti suscita chi è dissociato dalla propria mente. Alla fine in scena due cadaveri, Clitemnestra ed Egisto, morti ammazzati. Elettra fissa lo sguardo nel vuoto. Buio. E immagini che si richiuda il pesante portone di ferro della scenografia di Richard Peduzzi. Un cortile. Il libretto dice quello del palazzo di Micene. Potrebbe essere, però, quello di un carcere. O di un manicomio femminile: donne di ogni età, razza e colore. Un universo dove gli uomini entrano incidentalmente. E non sempre per riportare equilibri spezzati. Chéreau non offre una connotazione netta di tempo e luogo. Il luogo è un luogo di disperazione, certo. Nel quale si consuma la tragedia della vita. Dove si ama e si soffre. Un luogo della nostra quotidianità nel quale Elettra ha posto la sua dimora: abiti dismessi, capelli spettinati, braccia sporche di terra sulla quale vive. I costumi di Caroline De Vivaise non hanno nulla di regale, abiti che potrebbero indossare le donne di una qualsiasi periferia.
Luogo e, soprattutto, gesti della nostra quotidianità. Perché, assecondando la musica sublime di Strauss, il regista ha messo in scena una storia di sentimenti. Una storia quotidiana, appunto. Grande teatro che sa raccontare quasi senza il bisogno della parola. Gesti misurati (e provati al millimetro). Gesti semplici, come quelli delle ancelle che spazzano il cortile. Gesti carichi di affetto che dicono il bisogno di amore dei personaggi: e se sono naturali gli abbracci tra Elettra e la sorella Crisotemi, se commuovono quelli tra la ragazza e il fratello Oreste, scuotono, invece, quelli che il regista vuole tra Elettra e la madre assassina Clitemnestra. È qui il cuore dello spettacolo di Chéreau: il suo stile inconfondibile regala umanità all’eroina di Strauss, anche nel momento in cui rivela alla madre il suo destino tragico, essere la vittima sacrificale che sarà uccisa da Oreste per espiare la sua colpa. Chéreau fa diventare Elettra una donna di oggi, di quelle che vivono ai margini, rose da una rabbia che non riescono a trasformare. Elettra che alla fine, quando la vendetta che ha desiderato si compie, resta sola e svuotata, immobile e con lo sguardo perso nel vuoto, appunto. Perché incapace di dare un senso agli avvenimenti. Perché incapace di perdonare.
E non c’è, dunque, catarsi. Non la suggerisce nemmeno l’urlo disperato che Struss mette nelle ultime note. Crisotemi chiama Oreste, ma l’eroe (così vuole Chéreau) esce di scena. La musica (e le immagini) ti resta dentro. Christoph von Dohnányi dal podio la restituisce nella sua drammatica bellezza, ma anche nella sua poesia disarmante, perché pur sempre contrappuntata da un racconto tragico. Il direttore tedesco padroneggia la partitura, la porge con un naturale istinto narrativo, la sbalza nella sua bellezza estetica, mai, però, fine a se stessa. Sempre in linea con il canto del palcoscenico per creare un magma sonoro dal quale prende forma la tragedia.
Eroica nella parte di Elettra Ricarda Merbeth, sempre in scena a dominare il personaggio che arriva in tutta la sua brutalità, ma anche nel suo bisogno disperato di amore. Mai piegata dalla vita la Crisotemi di Regine Hangler, voce di una coscienza inascoltata. Energico (musicalmente sempre affascinante) l’Oreste di Michael Volle, freddo nel suo compito di vendicatore. Zampata interpretativa (a fronte di una voce a volte rarefatta e persa nel flusso della musica) di Waltraud Meier come Clitennestra. Cast affiatatissimo, capace di restituire una quotidinaità che non ti fa pensare che sul palco sta andando in scena uno spettacolo… penseresti, invece, che c’è la vita. Le donne di ogni età, razza e colore che popolano il cortile del mondo, cercando di lavare il sangue rivelatore della colpa, sono le commoventi Renate Behle, Bonita Hyman, Judit Kutasi, Violetta Radomirska, Anna Samuil e Roberta Alexander. Insieme alle artiste del coro del Teatro alla Scala preparate da Alberto Malazzi (da poco chiamato a dirigere il coro del Comunale di Bologna). Uomini ai margini di un universo femminile quelli raccontati da Frank von Hove, Michael Laurenz ed Ernesto Panariello.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Elektra
Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 6 novembre 2018