All’Opera di Roma il regista inglese rilegge il titolo di Mozart tra violenza sulle donne e monetizzazione dei rapporti umani Cantanti/attori a inseguire i ritmi frenetici di Montanari
Abbiamo un problema. Un elefante nella stanza. Detto in italiano il proverbio inglese elephant in the room non ha, forse, la stessa forza. Un umorismo britannico, che non appartiene all’Italia. Mettiamo allora che il grosso elefante che occupa tutta la scena de Le nozze di Figaro sia un’installazione artistica, una di quelle che i nuovi ricchi si mettono in casa (pagandola, magari, per quello che non vale) per ostentare un’agiatezza che è solo di facciata. Perché negli armadi, a raccontare il disagio, ci sono enormi scheletri. Scheletri (o elefanti, per restare al detto britannico) che si finge di non vedere.
Funziona anche così la rilettura modernamente sferzante del capolavoro di Wolfgang Amadeus Mozart – affidato alla bacchetta di Stefano Montanari – che il regista, inglesissimo, Graham Vick si è inventato per il Teatro dell’Opera di Roma (che gli ha commissionato, in tre anni, una nuova trilogia Mozart/Da Ponte). Funziona. E non funziona. Funziona nel suo essere “filologica”: spazzato via il Settecento per una modernità popolata da cloni dei tronisti di Uomini e donne, il racconto resta ancorato fedelmente al libretto, in ogni dettaglio. Funziona nel provare a capire chi siano oggi Figaro e Susanna, il Conte e la Contessa. Vick si pone domande, offre risposte, a volte non condivisibili, ma certo non banali: oggi, dice il regista, sono i nuovi ricchi che pensano di monetizzare qualsiasi rapporto umano e che mettono in atto – ecco l’elefante, il problema che nessuno vuol vedere – meccanismi subdoli di potere, primi fra tutti le molestie e la violenze sulle donne. Denuncia sociale aggiornata al nostro presente.
E non funziona. Perché quello in scena sino all’11 novembre forse non è il miglior Vick: parte come un musical, passa attraverso la commedia all’italiana, diventa dramma borghese e si chiude come una pellicola d’autore alla Fassbinder. Incerto, dunque, e continuamente in bilico tra un realismo da reality (scene e costumi di segno moderno, a tratti un po’ cafone, sono di Samal Blak) e un simbolismo (raccontato anche dai movimenti coreografici stralunati di Ron Howell) a tratti complesso da decriptare: l’elefante, prima bidimensionale e incombente nella camera della contessa e poi tridimensionale – si vedono, però, solo le zampe – nel terzo atto, problema ingombrante attorno al quale tutti i personaggi girano intorno senza affrontarlo; ma anche le immagini forti del quarto atto – quello sempre più complesso da risolvere registicamente e che anche qui è quello che convince meno – con le donne/trofeo del Conte appese ai muri o abbandonate, nude, in una carriola.
Chiusura (troppo) pessimistica per una commedia certo malinconica, ma non nera. Tanto che alle uscite finali insieme agli applausi qualche dissenso è piovuto addosso al regista. Ma anche al direttore d’orchestra.
D’accordo che Le nozze di Figaro sono il racconto di una “folle giornata”, ma così è forse un po’ troppo: Montanari, che pur sbalza dettagli orchestrali interessanti grazie ai musicisti dell’Opera e alla sua inventiva al clavicembalo, ha tempi serratissimi rischiando a volte (specie negli insiemi) di perdere i cantanti. La corsa è affannosa soprattutto nella prima parte (nella seconda il metronomo rallenta) con la conseguenza di far svanire la poesia di alcune pagine. Resta il passo teatrale incalzante, in perfetta sintonia con la regia, quasi da teatro di prosa, di Vick. Ben assecondata dagli interpreti, tutti attori credibilissimi, non sempre, però, musicalmente impeccabili: Vito Priante è un misurato Figaro, Elena Sancho Pereg una scaltra Susanna, Andrey Zhilikhovsky un Conte che è un moderno vitellone, Federica Lombardi una Contessa combattiva, Miriam Albano un Cherubino nerd alle prese con le tempeste ormonali dell’adolescenza.
Nelle foto @Yasuko Kageyama Opera di Roma Le nozze di Figaro
Articolo puibblicato su Avvenire del 1 novembre 2018