Il melodramma di Verdi ha inaugurato la stagione di San Gallo con l’intensa regia che scava nel profondo di Nicola Berloffa Debutto vincente come costumista di Alessandra Facchinetti
Ha vinto il Grande Inquisitore. E non è una buona notizia. Ha vinto il potere, quello subdolo. Che sa imporre il proprio pensiero convincendoti che sia il tuo. Ha vinto la prepotenza. Quella esercitata con tale sottigliezza intellettuale da farla sembrare convenienza, anzi, necessità morale. Ha vinto il Grande Inquisitore e ha perso l’uomo. Ha perso l’innocenza. Non difesa, anzi, perseguitata. Colpita là dove è più vulnerabile, negli affetti, nelle speranze. (Ri)Vedere Don Carlo al Theater Sankt Gallen è come (ri)mettersi sul lettino dell’analista. E per tre ore vedere se stessi. Vedere le persone alle quali vuoi bene. Vedere il proprio paese al quale, nonostante tutto, vuoi bene. A distanza, certo. Perché siamo a San Gallo, nella Svizzera tedesca. E in teatro, per un’opera lirica. E, forse, la distanza (insieme all’arte) è il modo migliore per sentirsi più vicini a se stessi (e, così, più vivi), catapultati dentro il proprio abisso di uomini.
Il transfer scatta subito quando si alza il telo nero del sipario. La musica non è ancora iniziata. Un attimo e sei dentro la vertigine. Dentro un ritratto di famiglia di fine Ottocento che, lo capisci con il passare del tempo e della musica, potrebbe essere (è, forse) la tua. I personaggi tutti in scena, disposti come in una tela: bianche le parteti della stanza, neri i costumi della corte, una monarchia sull’orlo del Novecento. Filippo, Carlo, Eboli, Posa, l’Inquisitore che incombe. Elisabetta, invece, è isolata, straniera in una terra che non sente sua. Lo dirà più volte, cantando in francese, graffio teatralmente efficace del regista Nicola Berloffa che per far sentire ancora di più la solitudine della regina ripesca alcune frasi da Don Carlos (dal grand opera pensato per Parigi Verdi trarrà poi la versione italiana del melodramma ispirato alla Spagna di Filippo II) e le mette in bocca a Elisabetta. Effetto straniante che viene a rompere l’armonia (sotto la quale in realtà covano tensioni pronte a deflagrare) di un ritratto che sa di romanzo storico, ma che dietro il dettaglio iconografico racconta, mettendolo a nudo, l’uomo contemporaneo, che è lo stesso di ieri e che è molto simile a quello che verrà domani.
Perché è così che Berloffa ha immaginato il capolavoro di Giuseppe Verdi che ha inaugurato la stagione del teatro svizzero (un palcoscenico per 75mila abitanti dove ogni sera si cambiano titolo e genere, opera lirica, musica sinfonica, danza, prosa e persino musical in un continuo ricambio che vedrà Don Carlo in cartellone sino a febbraio) con un allestimento tutto made in Italy: scene di Fabio Cherstich, costumi di Alessandra Facchinetti – la stilista italiana è al suo debutto assoluto come costumista –, luci di Valerio Tiberi. Un ritratto di famiglia, impietoso, duro come un pugno nello stomaco. Necessario, però, per ritrovare la propria umanità, per ritrovarsi attraverso un percorso che, inevitabilmente, passa dall’esperienza del dolore. E di dolore gronda la storia che Verdi mette in musica ispirandosi a Schiller. Berloffa lo asseconda, non lo anestetizza, anzi, in qualche modo lo amplifica raccontando la storia di Filippo II e del figlio Carlo, due uomini innamorati della sessa donna, che non si incontrano mai; la storia di Rodrigo e dell’Inquisitore, incarnazione di due visioni del mondo e di ciò che vuol dire esercitare un potere. Storia ambientata nella Spagna del Cinquecento che il regista sposta a fine Ottocento, epoca di crisi, del crollo delle monarchie, epoca (la stessa di Freud) di un mondo che si affaccia su un Novecento che corre verso la Prima guerra mondiale. E funziona. Perché con il salto in avanti (che conserva comunque una distanza temporale utile per fare da filtro con il nostro presente) cadono le convenzioni teatrali di gesti troppo formali nella loro regalità e la storia diventa ancora più drammatica.
Storia di potere e di solitudini. Storia che nel privato deflagra, spingendo i protagonisti sull’orlo della follia. Berloffa racconta così la bipolarità di chi in pubblico mostra un viso duro solcato invece, nell’intimo, da lacrime. Così la misura pubblica del re diventa istinto selvaggio nel colloquio privato con Rodrigo – il figlio che Filippo avrebbe voluto avere e che Carlo non riesce ad essere – che scaraventa a terra, ma che poi vuole seduto accanto, perché ha bisogno di un affetto sincero. Toccante il modo in cui Berloffa disegna il rapporto tra i due, con Rodrigo spinto verso Filippo da un affetto che diventa quasi attrazione, da una venerazione che forse si potrebbe chiamare amore. Un rapporto troncato brutalmente, da un colpo di pistola sparato dallo stesso Inquisitore (scelta che getta un’ulteriore ombra nera sul personaggio) a dire che non c’è speranza per i puri.
E non c’è redenzione per nessuno dei personaggi immersi nei colori cupi di uno spettacolo tutto in interni: tre stanze (solo quella del primo atto è bianca, le altre sono una rosso cupo e l’altra nera, disegnate con rigore e gusto raffinato da Cherstich) che, salendo e scendendo, si incastrano una nell’altra, chiudendo in trappola i personaggi per dare un senso di claustrofobia al racconto. Stanze sulle cui pareti si allungano le ombre dei protagonisti (tutte di taglio, quasi a raccontare un sogno che diventa incubo, le luci di Tiberi), memoria di un passato che incombe. Quello che schiaccia Filippo: da brivido il passaggio tra secondo e terzo atto (senza intervallo, fatto a metà del secondo atto, dopo il terzetto Carlo-Rodrigo-Eboli prima del quale è stata ripristinata la drammaturgicamente imprescindibile scena dello scambio dei veli) quando, terminata l’autodafè (la voce dal cielo diventa una delle voci che risuonano nella testa di Filippo e lo tormentano), tutti, compresa Elisabetta, voltano le spalle al re che si ritrova solo con il suo dolore a intonare l’Ella giammai m’amò in una sorta di delirio allucinato che lo trasfigura. Così il Son io dinnanzi al re non diventa una domanda di un Inquisitore cieco che si affaccia sulla scena senza sapere dove si trova, ma si impregna del disprezzo verso chi appare come l’ombra di se stesso. Filippo solo a fronteggiare (uscendone inevitabilmente sconfitto) il Grande Inquisitore. Personaggio che Berloffa imparenta con le grandi figure di Dostoevskij, facendone una sorta di Rasputin, consigliere che trama nell’ombra tano che Filippo potrebbe essere un po’ Nicola II, vestito come in un quadro di Tuxen da Alessandra Facchinetti. Divise che si spogliano progressivamente degli orpelli, a dire la perdita di potere, per gli uomini, linee che esaltano la femminilità per le donne, ingabbiate in costumi sontuosi che conferiscono lentezza ai movimenti e dunque drammaticità al racconto.
Un cardinale tutto nero il Grande Inquisitore, che Berloffa non vuole né cieco né anziano, ma energico e risoluto nel portare a termine il proprio disegno distruttore tanto che sarà lui a consegnare a Filippo lo scrigno sottratto da Eboli a Elisabetta per incolpare la regina, a sparare in carcere a Rodrigo e (forse) a evocare la voce di Carlo V che nel finale allucinato, mentre Carlo segue nella tomba il feretro di Rodrigo in un esilio volontario, vede Filippo cadere in ginocchio, schiacciato dal senso di colpa, immobile e con lo sguardo perso nel vuoto.
Ha vinto il Grande Inquisitore. E non è una buona notizia. O forse sì. Rivelatrice, nel suo transfert, di quello che siamo, di quello che sono, senza barriere e pudori, le persone alle quali vogliamo bene, di ciò che il mondo, il nostro mondo al quale nonostante tutto vogliamo bene, è diventato. Passaggio necessario per rialzarsi e ricostruirsi.
Gli applausi, che partono appena il buio avvolge la scena, sono come un brusco risveglio. Applausi che accolgono il team venuto dall’Italia. Che salutano il direttore Modestas Pitrenas (sul leggio del direttore musicale una partitura con qualche taglio per stare nei temi “svizzeri” imposti dai ritmi della programmazione del teatro), capace di una tensione teatrale in sintonia con la lettura di Berloffa. Che festeggiano gli interpreti, tutti giovani ed entusiatsi: Tareq Nazmi (eccellente Filippo sia sul fronte musicale che su quello interpretativo), Eduardo Aladrén (che mette il suo generoso squillo tenorile nel ritratto di Carlo), Nikolay Borchev (fragile Rodrigo), Ernesto Morillo (energico Inquisitore), Alessandra Volpe (convincente Eboli, applaudita a lungo a scena aperta dopo un intensissimo O don fatale) e Alex Penda (Elisabetta che domina in ogni stante la scena, ma che si riscatta musicalmente solo nel quarto atto con una zampata da interprete non comune).
Cala il telo nero. La seduta psicanalitica è finita. (Ri)Comincia la vita.
Nelle foto @Iko Freese Don Carlo al Theater Sankt Gallen