Il Mozart di Kosky, il Flauto diventa un film muto

All’Opera di Roma il geniale spettacolo del regista australiano che racconta Zauberflöte come una pellicola degli anni ’30 Henrik Nánási sul podio di un cast affiatato e convincente

Il flauto magico come un film muto. Di quelli con le parole dei dialoghi proiettate sullo schermo, rigorosamente in bianco e nero, e il suono del pianoforte a commentare dal vivo l’azione. Così il regista australiano Barrie Kosky ha immaginato il capolavoro di Wolfgang Amadeus Mozart. E lo hanno realizzato alla Komische oper di Berlino in un allestimento che ha fatto la storia (e il giro del mondo) e che ora arriva per la prima volta in Italia, sul palco del Teatro dell’Opera di Roma. Trasformato, per l’occasione, in una sala cinematografica: un sipario rosso che si alza e scopre uno schermo bianco, uno schermo cinematografico, appunto.

Dal fondo della sala parte il fascio di luce del proiettore: sullo schermo si materializza una foresta, poi, al centro, un uomo che corre affannosamente. Un’immagine bidimensionale, quella del cinema, che però buca lo schermo. Perché quell’uomo, che nella storia è Tamino, è Juan Francisco Gatell: le gambe che corrono sono una proiezione, busto e volto, invece, sono quelli del cantante che veste i panni del principe inviato dalla Regina della Notte a liberare la figlia Pamina da Sarastro. E inevitabilmente ci scapperà l’innamoramento.

Sullo schermo, che chiude il palco in proscenio e avvicina l’azione alla platea, compare un serpente, Tamino sviene. In alto tre porte girevoli fanno materializzare le Tre Dame. Pronte con un gesto ad uccidere la bestia feroce. Le Dame scompaiono. Finisce la musica. Da partitura tocca al recitativo perché Die Zauberflöte è un singspiel, un’opera che altra momenti cantati e momenti parlati. Who bin ich? Dove sono? Si chiede Tamino. Ma le parole non gli escono dalla bocca. Compaiono sullo schermo, didascalie di un film muto accompagnate dal fortepiano. Idea geniale dei registi per risolvere i recitativi dando alle parole dei dialoghi quasi un effetto straniante.

Cifra che caratterizza tutto lo spettacolo. È un attimo. Ecco un altro strano personaggio, vestito e truccato come Buster Keaton. È Papageno, l’uccellatore che farà da guida tragicomica a Tamino nella sua impresa. Parte la storia e da qui al finale è tutto un rincorrersi di idee, di trovate, di invenzioni che non danno tregua agli occhi per un Flauto magico  che diventa quasi un film realizzato in diretta. Un film di animazione dove il racconto non è per nulla edulcorato, anzi diventa feroce, a tratti crudele (ma sa anche essere poetico), con atmosfere horror da kabaret. Disegnato con tratti marcati e linee nette, colorato con tinte acide (giallo e verde, a volte rosa shocking) a dire che la favola di Emanuel Schikaneder racconta la vita. Come in un sogno (o in un incubo) dicono Kosky che ha realizzato la sua folle idea della Zauberflöte in versione film muto con il gruppo di animazione 1927 (anno in cui il cinema passò da muto a sonoro con l’uscita de Il cantante di jazz) di Suzanne Andrade e Paul Barrit.

La Regina della Notte è una strana creatura, ragno gigante dal corpo scheletrico, Monostatos, il carceriere di Pamina, assomiglia tanto a Nosferatu, i geni arrivano su una mongolfiera portata da una farfalla, Sarastro è un signore grigio (circondato da tanti cloni) come quelli che governano la politica e l’economia e il suo regno è squadrato e meccanico, un labirinto tecnologico dove animali e uomini non hanno viso e corpo, ma ingranaggi che li rendono tanto simili ai robot. Gioco di rimandi al cinema, ai fumetti, ma anche riflessione sull’esistenza sfrondata da tutti i riferimenti massonici di cui Il flauto magico è pieno.

Gioco, quello della regia di Barrie Kosky e Suzanne Andrade, che funziona alla perfezione. Certo, Die Zauberflöte, si presta a molte interpretazioni tanto che è difficile afferrane completamente l’essenza, rendere, in un solo allestimento, tutti i significati che la musica e le parole nascondono. Ma quello in scena a Roma è lo spettacolo perfetto. Capace di far sorridere (a volte ridere in modo sonoro e gustoso come di fronte alle gag del gatto di Papageno o ai lupi che ballano in guepiere sui tetti), di commuovere (la sfera di cristallo con la neve che cade dentro la quale Pamina canta la sua struggente Ach, ich fühl’s), di tirare il pubblico dentro lo schermo insieme ai protagonisti. Tanto che ti pedi nel gioco e spesso, talmente l’ingranaggio è impeccabile, hai l’illusione di essere davanti a un film proiettato sul grande schermo.

Ci pensa la musica a dare la tridimensionalità. Ad avvolgere l’ascoltatore. Musica che Henrik Nánási dirige diligentemente, ma forse non lasciandosi troppo prendere nel vortice delle immagini (eppure nel 2012 quando lo spettacolo nacque a Berlino c’era lui sul podio, parte integrante del progetto di Kosky). Ne esce un Flauto tradizionale, senza quel piglio e quella durezza “filologica” che le immagini forse richiederebbero. Non c’è nulla di sbagliato, tutto va liscio e corretto (tempi, accompagnamenti, colori) solo questione di atmosfera. Quella stralunata inventata da Kosky e dentro la quale si cala perfettamente il cast: le voci liriche e morbide di Juan Francisco Gatell e Amanda Forsythe per la coppia degli innamorati Tamino e Pamina, quella piena di Joan Martin-Royo per un misuratissimo Papageno, quella svettante negli acuti di Christina Poulitsi per una tagliente Regina della Notte, quella ammiccante e musicalissima di Marcello Nardis per un simpatcamente inquietante Monostatos. Le Tre Dame sono Louise Kwong, Irida Dragoti e Sara Rocchi, i Tre Fanciulli le intonatissime Giulia Peverelli, Anastasia Spalvieri e Agnese Funari, allieve della Scuola di canto corale del Teatro dell’Opera.

La luce e l’amore hanno vinto. Tutti in posa per il fermo immagine finale mentre lo schermo va a nero. Das Ende.

Nelle foto @Yasuko Kageyama Opera di Roma Die Zauberflote