Il direttore canta e balla sul podio e vince la sfida del musical per l’inaugurazione della stagione di Santa Cecilia a Roma
La curiosità è quella di vedere l’effetto che fa. L’effetto che fa un musical in forma di concerto. West Side Story di Leonard Bernstein inaugura la nuova stagione sinfonica dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia per celebrare i cento anni della nascita del compositore americano. In forma di concerto, appunto. Perché i paletti della fondazione Bernstein sulla versione scenica sono molto rigidi: il format inventato dal regista e coreografo Jerome Robbins deve essere lo stesso, dovunque lo si faccia. E perché l’Auditorium non è un teatro. Sul palco i leggi dell’orchestra, le pedane per il coro. Classico assetto da Nona di Beethoven. Ma al Parco della musica c’è qualcosa della New York anni Cinquanta dove Bernstein colloca la storia (ancora attuale, perché parla di integrazione) di Tony e Maria, moderni Romeo e Giulietta, innamorati divisi dall’odio delle famiglie nel Bronx delle bande di bianchi e portoricani. Alcune sbarre di metallo a evocare un balcone. Qualche fiore. Luci colorate sul soffitto di vele di legno.
In sala si chiacchiera ancora. Sul palco entrano gli orchestrali. Niente abito nero da concerto, però: uomini in camicia scura, donne in abiti colorati e fiorati, gonne larghe, foulard al collo. Stile anni Cinquanta, appunto. Anche per il coro. Gli Jets, i bianchi, sono misurati nelle loro camicie bianche. Su una pedana a sinistra. Gli Sharks, i portoricani, sono una macchia di colore sulla pedana a destra. Al centro le donne, truccate e acconciate da sera, pronte per scatenarsi nelle danze latino americane. Li guardi e quasi non ti accorgi che sul podio c’è già Antonio Pappano. Camicia, la sua immancabile casacca da concerto, infilata nei pantaloni. Di spalle, senza prendere l’applauso di ingresso.
Buio. La bacchetta diventa fluorescente (e anche le partiture bianche dell’orchestra) e Pappano attacca il preludio. È già teatro. La musica di Bernstein disegna l’ambiente. Fisico e sociale. Scale di servizio di grandi palazzoni, bidoni dell’immondizia. Tutto nella fantasia raccontata dalla musica. Un’umanità ai margini. Le bande rivali si fronteggiano, si sfidano. Si puntano il dito. Il momento della resa dei conti non è lontano. Il suono tagliente di un fischietto (annotato puntualmente in partitura) rompe le righe. Lo ha in bocca lo stesso Pappano che si mette anche un cappello da poliziotto. Voce tra le voci partecipa all’azione, una volta poliziotto, una volta maestro delle cerimonie che da’ il via alle danze. Il mambo e il cha cha con le coriste che non riescono a star ferme.
Danza anche Pappano protagonista di una lettura intensa e ispirata, capace di mettere in luce tutte le pieghe melodiche di una partitura sinfonica, dove c’è la lezione che Bernstein ha appreso frequentando il podio: ci sono il jazz e il blues, c’è Gershwin, naturalmente, c’è Mahler e la sua concezione del racconto sinfonico, ci sono il contrappunto e la fuga coniugati con i songs, versione aggiornata delle arie d’opera (la scrittura non concede nulla ai cantanti, anzi chiede loro concentrazione e virtuosismo). Perché West Side Story è a tutti gli effetti un’opera, nella sua idea di racconto teatrale in un’unica arcata tra parole e note, versione novecentesca del singspiel, dove la musica domina la scena, poi si fa tappeto per i dialoghi parlati per prendere infine il sopravvento diventando canto.
Che è affidato a una squadra che vede nomi affermati del panorama lirico insieme a specialisti del musical. Nadine Sierra è la fragile Maria, commovente nella sua contenuta disperazione. Tony ha gli slanci generosi di Alek Shrader. Riff è un convincente Mark Stone, Rosalia una puntuale Aigul Akhmetshina. Anita ha la verve di Tia Architto, artista sudafricana protagonista in Italia di musical come Sister act e Hirspray. Andrea Giovannini, che ha iniziato con il musical e ora è impegnatissimo sul fronte lirico, è Action, mentre Kris Belligh da vita a più personaggi della banda degli Jates. Tutti capaci di restituire l’intensità di pagine diventate popolarisime come Maria, Tonight o Somewhere. Che raccontano i sogni d’amore e di pace spezzati di giovani di ieri e di oggi.
Con la musica. E con le parole. Tanto che se un nodo critico si può trovare in questa sfida (comunque vinta alla grande da Santa Cecilia) del musical in forma di concerto è proprio quello di non aver osato andare fino in fondo, proponendo la versione completa della partitura, dialoghi parlati compresi. La versione che Pappano ha sul leggio è abbondantemente sforbiciata (tanto che il secondo atto si riduce a 35 minuti; a questo punto, forse, valeva la pena non fare nemmeno l’intervallo) con le didascalie proiettate che riassumono ciò che avviene nelle scene omesse. Ma il racconto finisce così per correre troppo rapido verso il finale. Verso la morte di Tony che fermerà le violenze, costringendo Jets e Sharks a fare la pace. A riflettere sull’inutilità della violenza.
Come fa Bernstein con la sua musica che si spegne nel silenzio. Come sembra suggerire Pappano, immobile sul podio mentre l’Auditorium si reimmerge nel buio iniziale. Teatro. E vita.
Nelle foto @Accademia di Santa Cecilia West Side Story