Tony Pappano, vi racconto il mio Bernstein

Il direttore apre la stagione dell’Accademia di Santa Cecilia con il musical West Side Story proposto in forma di concerto omaggio per i cento anni dalla nascita del compositore

«È vero, Tony e Maria sono uno americano e l’altra portoricana. La storia messa in musica da Leonard Bernstein li racconta così, figli di bande rivali nella New York della metà degli anni Cinquanta. Ma potrebbero essere benissimo cittadini di qualsiasi nazione, di qualsiasi epoca. Specie di quella presente, innamorati in un paese alle prese con il fenomeno migratorio». Antonio Pappano stasera, vemnerdì 12 ottobre, inaugura la nuova stagione dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia «con un classico della musica del Novecento», West Side Story. Sul palco del Parco della musica di Roma alle 20.30 (diretta su Radio tre, repliche sabato 13 e domenica 14 alle 18) con le voci di Nadine Sierra (Maria) e Alek Sharder (Tony) versione in forma di concerto del musical di Bernstein datato 1957. «Nuova tappa – racconta il direttore d’orchestra italo-britannico, dal 2005 alla guida della formazione romana – dell’omaggio al grande musicista di cui nel 2018 si celebrano i cento anni della nascita».

Perché, maestro Pappano, aprire la stagione di un’orchestra sinfonica come Santa Cecilia con un musical?

«Questa musica è diventata parte della nostra cultura, l’abbiamo nel nostro dna. Ne ho avuto la conferma in questi giorni in prova: ho notato che tutti in qualche modo, suonandola, si sentono a casa. Sarà anche per il legame che ha unito Bernstein a Santa Cecilia: il compositore americano negli ultimi dieci anni della sua vita è stato molto vicino alla nostra orchestra, dirigeva sia il repertorio sinfonico che la sua musica. Metterlo sul leggio è il nostro modo di dire Grazie Lenny, slogan che è poi il titolo del ciclo che gli abbiamo dedicato, partito con le Sinfonie, pubblicate ora in un disco Warner classics».

Stasera, invece, tocca a West Side Story.

«Il titolo più rappresentativo di tutto l’universo di Bernstein, ha dentro la sua vena sinfonica e quella teatrale. Ma non solo, è un pilastro della musica del Novecento. È vitale, sensuale, giovane e nostalgica, racconta una tragedia dove i giovani soffrono e muoiono, ma è anche piena di gioia di vivere».

Che effetto fa un musical in forma di concerto?

«Uno strano effetto, d’altra parte i paletti che la fondazione Bernstein pone per la versione scenica di West Side Story sono molto rigidi, non avremmo potuto rispettarli tutti in Auditorium. Abbiamo, però, ottenuto di farlo in forma di concerto, un permesso concesso solo a sei formazioni tra cui noi di Santa Cecilia. Certo, per me sarà difficile non ballare sul podio seguendo i ritmi scatenati delle danze».

West Side Story racconta l’amore di due ragazzi sullo sfondo di una vicenda di immigrati, racconta la difficile integrazione di chi si trova straniero in un’altra patria. Parole oggi all’ordine del giorno della cronaca.

«Bernstein racconta il razzismo, l’incomprensione, il pregiudizio e l’intolleranza nei confronti dell’altro, racconta conflitti inutili che rischiano di distruggere famiglie e popoli. Vicende che potrebbero stare drammaticamente sulle prime pagine dei nostri giornali. Per questo è importante anche per chi come noi fa musica dare l’esempio opposto, dire che il dialogo è possibile, che la convivenza è fonte di arricchimento reciproco. Una lezione molto semplice, ma potente».

Una lezione che ha imparato sulla sua pelle: nato in Inghilterra da genitori italiani è poi emigrato negli Stati Uniti. Che effetto le fa raccontare questa storia in musica?

«In America il tema dell’immigrazione è molto sentito, la politica è molto focalizzata su questo. Oggi l’immigrato è visto come una minaccia, come un pericolo. Forse è sempre stato così, ma oggi questa sensazione sembra più amplificata. Questo, però, vuol dire non ricordare la storia perché gli Stati Uniti non sarebbe potuti esistere senza gli immigrati che hanno costruito palazzi, che hanno coltivato la terra, che sono andati in guerra con gli americani. Io sono fiero di far parte di questa storia e consapevole della ricchezza che un emigrante può portare a un paese. E per questo mi dispiace che l’Italia, la patria dei miei genitori, da dove in molti sono partiti per cercare fortuna all’estero, stia vivendo sentimenti di intolleranza».

Dunque questo West Side Story diventa anche un monito alla politica?

«Certo, ma perché lo è la partitura di Bernstein. Lenny non ha mai taciuto, ha parlato ad alta voce su alcuni temi sociali cruciali per la società del suo tempo. È stato un esempio di musicista rinascimentale, onnivoro e curioso: leggeva, studiava, era letterato, era insegnante, un grande pianista, un direttore eccelso. Un compositore. Eppure non ha avuto vita facile perché non faceva parte dell’avanguardia e questo lo faceva guardare con sospetto dai puristi: non lo crederesti conoscendo la sua grandezza e tutti i suoi successi, eppure ha dovuto ingoiare molti rospi. Se non suonasse retorico direi un uomo di quelli che non esistono più».

In questi giorni si divide tra Roma e Londra dove al Covent Garden, il suo teatro dal 2002, dirige un nuovo Ring di Wagner. Come va, sir Pappano, con la Brexit?

«Va male, è un disastro. Le persone male informate sono andate a votare contro l’Europa, senza sapere bene cosa c’era in ballo. È un problema in tutti i campi della vita sociale, musica compresa. Come possiamo pensare di tagliare i legami con artisti di tutta l’Europa?».

Intervista pubblicata su Avvenire del 12 ottobre

Nelle foto @Accademia di Santa Cecilia le prove di West Side Story