Diario verdiano. 4
Lotta tra pugili nella regia di Wilson al Festival Verdi di Parma per l’opera affidata al direttore musicale Roberto Abbado Gipali, Mantegna, Vassallo e Surguladze ottimi protagonisti
L’effetto è straniante. Poetico. Un vecchio con la testa fra le nuvole. Barba bianca. Completo impeccabile giacca e cravatta. Un cappello a cilindro. Lo sguardo, però, è altrove. Oltre l’azzurro abbagliante della scena. Come perso. Lo sguardo, pensi, di tanti anziani che oggi guardano la vita da una poltrona di un ricovero. Cercando, in una finestra, l’azzurro del cielo. Riguardano la vita che hanno vissuto. Con un mezzo sorriso che ogni tanto si accende in volto. Perché Trovatore è la tragedia del ricordo. Ricordo di un dramma di una vita passata che non molla la presa nel presente (eterno) della mente. Trovatore, ma più ancora Le Trouvère versione francese datata 1857 della popolare opera scritta da Giuseppe Verdi nel 1853 per Roma. Versione francese di gusto francese, con abbellimenti nelle romanze, con le immancabili danze, con un finale diverso. Ancora più inquietante. Un Miserere per chi muore.
Eterno presente quello nel quale Robert Wilson immerge Le Trouvère, un blocco di luce abbagliante nella cornice di legno, scuro e caldo, del Teatro Farnese. Il Festival Verdi affida al regista texano – per il ciclo Grandi maestri al Farnese che vede Wilson seguire Peter Greenaway e Graham Vick – l’allestimento dell’opera di raro ascolto. Che potrebbe sembrare solo una trasposizione delle note usate per il libretto di Salvatore Cammarano sui versi tradotti in francese da Émilien Pacini. Ma che in realtà – sarà forse anche per la lettura straniante di Wilson o per l’acustica del Farnese che stempera nell’aria la musica, dando l’impressione di evocarla da angoli remoti della memoria – è ancora più introspettiva dell’originale nel raccontare storie di uomini attraverso una radiografia dell’anima.
Anima nera, come quella dei personaggi che si stagliano, neri appunto, sui controluce abbaglianti immaginati da Bob Wilson per Le trouvere, storia di due fratelli che si fanno una guerra (d’amore e di potere) che ucciderà entrambi, uno fisicamente, l’altro nell’anima, lasciandogli un lutto da elaborare. Storie senza tempo. Che potrebbero passare nella mente dell’anziano che quando si aprono le porte del Farnese è già sul palco, immerso nell’azzurro di un ring che diventerà il terreno di scontro.
Wilson fa Wilson. All’ennesima potenza. Con un racconto dove l’estetica è già etica: le scene e le luci sono dello stesso Wilson, i costumi di Julia von Leiwa, il trucco di Manu Halligan. La poetica dell’artista texano è quella, prendere o lasciare. Parma accetta la scommessa di un “Verdi alla Wilson”. Che funziona nella raggelante staticità del montaggio (quasi cinematografico) della storia: mai un contatto tra i personaggi, immobili nell’evocare, con il volto imbiancato e gesti da teatro kabuki, la potenza del male.
Tanta luce illumina il palco: macchie colorate a visualizzare quasi un cardiogramma dei sentimenti, led a delimitare il palco/ring. Sul quale, durante le danze (musicalmente magnifiche) avviene un combattimento: Wislon più che una coreografia vuole una pantomima dove coppie di pugili di ogni età (l’opera – dice il regista per spiegare il perché dei guantoni da box rossi – racconta la lotta di due fratelli) si affrontano in combattimento. Idea che all’inizio sorprende (fa anche sorridere), ma che poi non decolla, non si evolve in un pensiero né estetico né di contenuto, restando sempre uguale a se stessa (e alla prima Wilson qualche dissenso ha dovuto incassarlo).
Peccato perché l’effetto poteva essere di quelli memorabili. Tanto più che sul podio, a guidare le danze (letteralmente in questo caso) c’è Roberto Abbado che con Le Trouvère inaugura la sua direzione musicale al Festival Verdi. Direzione trascinante, accurata nello sbalzare i dettagli della partitura (nelle danze, ma non solo), nel tenere le fila di un discorso che si sviluppa in un’unica grande arcata dal rullo di timpani iniziale all’inquietante eco del Miserere che accompagna la morte fuori scena di Manrique.
Lettura che orchestra e coro del Comunale di Bologna assecondano impeccabilmente. E che le voci in campo esaltano. A Manrique offre il suo slancio Giuseppe Gipali. Léonore è una convincente Roberta Mantegna che affronta, vincendo, uno dei ruoli verdiano più impegnativi. Franco Vassallo, grazie a una voce con tutti i colori verdiani e a un temperamento scenico magnetico, disegna un riuscitissimo Comte de Luna. Nino Surguladze è un’Azucena misurata, mai sopra le righe, ben consapevole del dolore che si tiene tutto dentro sino a quando la sua vendetta è consumata. Terribile e implacabile.
E il palco, dopo tanta luce, viene inghiottito dal buio. Come se gli occhi si chiudessero di fronte a tanto dolore. Gli occhi di un vecchio, pronti a riaprirsi su un altro azzurro, su un Oltre che, solo a immaginarlo, lascia sul viso il cenno di un sorriso.
Nelle foto @Lucie Jansch Le Trouvere al Teatro Farnese di Parma per il Festival Verdi