Diario rossiniano. 2
Applausi e dissensi per l’opera che ha inagurato il Rof 2018 Pinkoski ingabbia in una regia polverosa una storia moderna che racconta lo scontro di civiltà e la violenza sulle donne Florez eccellente protagonista con la sudaficana Pretty Yende Sagripanti governa con misura una partitura complessa
La domanda sulla quale ci aveva lasciato il sovrintendente del Rof Ernesto Palacio era: Come raccontare e interpretare Rossini ai giorni nostri? Non come ha fatto il regista Marshall Pynkoski, verrebbe da rispondere dopo il Ricciardo e Zoraide che ha inaugurato l’edizione numero trentanove del Rossini opera festival, quella pensata per il 2018 per ricordare i 150 anni dalla morte del compositore di Pesaro.
Cornice l’Adriatic Arena, palazzetto dello sport dentro il quale è costruita una scatola lignea che ricrea la platea (con ottima visuale) di un teatro moderno: canestri, tabelloni luminosi e seggiole colorate accatastati agli angoli, pareti e soffitti di legno per agevolare l’acustica e permettere alla musica di arrivare chiara al pubblico. Effetto straniante, segno (estetico, certo) della necessità dell’opera di dialogare con il presente.
Non come ha fatto Pinkoski, si diceva. Perché dalla sua regia/belletto è uscito un Rossini polveroso, che sembra non dire nulla al nostro tempo ingabbiato com’è in scene dipinte con il mare ricreato da teli azzurri (come si usava una volta), costumi che sembrano usciti da magazzini teatrali dove erano chiusi da anni (non c’è uno stile, ce ne sono vari, dalle divise dei crociati ad abiti stile dolcevita che sembrano presi da vari altri allestimenti anche se in locandina c’è il nome di Michael Gianfrancesco alla voce costumi), balletti di cui l’azione è infarcita (coreografia accademica, con l’abc dei passi di danza forse per imparentare la partitura al grand opera?) ma di cui non si capiscono senso e necessità.
Peccato. Ventidue anni fa, quando Ricciardo e Zoraide andò in scena l’ultima volta al Rof, sul palco c’era l’allestimento ambientato tra le dune del deserto di Luca Ronconi. Oggi, due decenni dopo, la storia ci ha raccontato fatti che la partitura, profetica come le vere opere d’arte, anticipava. Perché questo Rossini del 1818 (duecento anni fa!) è modernissimo nel suo denunciare quelle che oggi chiamiamo guerra di civiltà, con quello che qualcuno vuole far diventare uno scontro di religioni tra cristiani e musulmani, e violenza sulle donne, oggi condannata e contrastata, ma un tempo (ahimè) prassi nei rapporti interpersonali. Modernissimo, Rossini, nel mettere sotto la lente di ingrandimento sentimenti e atteggiamenti del cuore come il sacrificio, la fedeltà, la caparbietà (parole che oggi sembrano destinate a scomparire dal vocabolario della modernità) che, inaspettati, alla fine trionfano nel libretto (non così lineare e coinciso di Francesco Berio di Salsa) e soprattutto nella musica. Che al Rof ha convinto grazie a una squadra di interpreti capitanata (e trascinata, visto il carisma che trasuda e il clima che sa creare in scena) da Juan Diego Florez.
Musica che è quella di un Rossini a metà tra i grandi drammi seri (l’ouverture per numeri chiusi con l’uso della banda fuori scena delinea da subito i contorni del dramma con una scrittura moderna) e le opere buffe (il rondò finale a più voci che celebra l’amore è imparentato con quello del Barbiere). Musica che alterna, dunque, dramma e leggerezza. Perché racconta la vita con tutte le sue sfumature.
La storia è quella di Agorante, re di Nubia, che ama Zoraide, promessa, però al paladino cristiano Ricciardo, nonostante l’avversione del padre di lei Ircano. La ragazza, rapita dal re musulmano, cerca in tutti i modi di non cedere ad Agorante che la vorrebbe sposare. La gelosia della prima moglie di Agorante, Zomira, che medita vendetta, l’arrivo di Ricciardo che si traveste da africano per provare liberare Zoraide (meccanismo tipico dell’opera buffa il travestimento), la comparsa in scena di Ircano sotto mentite spoglie sono l’intreccio che culmina in un duello per la ragazza, tra il crociato ircano e il (finto) africano Ricciardo. Scoperto, però, l’inganno Agorante condanna tutti a morte. Zoraide allora, pur di salvare il padre, acconsente a sposare il re. L’arrivo dei crociati mette in fuga i musulmani. Ad Agorante, che si riconcilia con Zomira, viene risparmiata la vita e Ricciardo può unirsi a Zoraide con la benedizione di Ircano.
Racconto tipicamente ottocentesco, certo, reso moderno dalla musica. Quasi fosse una soggettiva sui sentimenti dei personaggi. La legge così Giacomo Sagripanti sul podio dell’Orchestra nazionale della Rai (il coro è quello del Teatro Ventidio Basso), attento ad ogni dettaglio della partitura che si ascolta, come impone la politica del Rof, nell’edizione critica della Fondazione Rossini in collaborazione con Casa Ricordi, curata da Federico Agostinelli e Gabriele Gravagna. Il direttore tiene bene le fila di una scrittura complessa dando passo teatrale al racconto con tempi e dinamiche sempre misurate. Racconto che in scena non decolla. anche per scelta dichiarata del regista che non ha voluto raccontare con segno contemporaneo lo scontro tra occidente e Sud del mondo. Racconto che, come potrebbe essere in un film in costume, non risulta nemmeno avvincente, sempre uguale a se stesso, impacciato (tanto che gli incidenti di percorso con cadute e scontri sul palco sono ripetuti) nella scelta di una regia frontale, orizzontale, con i cantanti sempre nelle stesse tre posizioni, centrali di fronte al direttore, accasciati a terra, in primo piano sulla passerella che circonda l’orchestra provando a portare l’azione tra il pubblico (idea, anche questa, non nuova). Pubblico che alla fine accoglie con sonori dissensi Pinkoski, lo scenografo Gerard Gauci, il costumista Michael Gianfrancesco e la coreografa Jannette Lajeunesse Zingg.
Applausi trionfali, invece, per i cantanti. Florez, che poi è il più rossiniano del cast, fa centro ancora una volta con la sua voce capace di salire in alto e di affrontare senza un’increspatura le mirabolanti agilità di cui è disseminata la partitura. Lo fa anche Sergey Romanovsky, prestanza fisica e vocale sono i punti di forza del sui Agorante, l’altro tenore (voce che piaceva a Rosini, tanto che nell’Otello ne mette ben tre) impegnato in un’intenso duetto con Florez, quasi una sfida a colpi di acuti. E c’è un terzo tenore anche qui, Xabier Anduaga, voce importante (tecnioca forse un poco da affinare) che strappa applausi (è un ex allievo dell’Accademia rossiniana, in un certo senso gioca in casa) come Ernesto. Pretty Yende, sudafricna, uscita dalla fucina dell’Accademia della Scala, è una Zoraide musicalissima, ma forse poco disposta a far trasparire i sentimenti. Nicola Ulivieri presta la nobiltà della sua voce a Ircano, Victoria Yarovaya il suo timbro bruno e tornito a Zomira.
Nelle foto Studio Amati Bacciardi il Ricciardo e Zoraide al Rossini opera festival