Intervista al direttore milanese che apre il Festival di Lucerna alla guida dell’orchestra fondata ottant’anni fa da Toscanini L’infanzia è il tema declinato con Stravinskji, Ravel e Bruckner Sul caso Gatti dice: Situazione difficile che dispiace molto
La sensazione è quella di essere parte di una storia. Che poi si incrocia con la Storia. «Perché la Lucerne festival orchestra venne fondata da Arturo Toscanini giusto ottant’anni fa». Era il 1938 e sull’Europa si allungava lo spettro delle leggi razziali. Spettro che avrebbe costretto Toscanini all’esilio negli Stati Uniti. Tempo di memoria, dunque, a Lucerna. Dove Riccardo Chailly si sente parte «di una storia iniziata, appunto, con Toscanini e proseguita con Claudio Abbado che nel 2003 ha ridato vita all’orchestra». Dal 2016 Chailly ha raccolto l’eredità di Abbado diventando direttore musicale della formazione che è il pilastro portante del Festival di Lucerna: l’edizione 2018 si apre il 17 agosto e, come sempre, porta sulle rive del lago svizzero, «il meglio della musica classica internazionale» racconta Chailly «felice di festeggiare anche i miei trent’anni dal debutto al festival».
Era il 1988, maestro Chailly, e a Lucerna arrivò con il Concertgebouw di Amsterdam. Che ricordi ha di quei giorni?
«Avvertivo un senso di responsabilità, anche per la giovane età: avevo 35 anni ed ero stato da poco nominato chief conductor del Concertgebouw. Un’orchestra che passava dal festival ogni due o tre anni, ma che da allora è stata invitata ogni anno con me e con i miei successori alla guida della formazione musicale. Per quasi trent’anni sono stato ospite, con Amsterdam, con il Gewandhaus di Lipsia. Oggi non mi sento più tale, ma parte integrante di una storia che arriva da lontano: dopo Abbado e Toscanini tocca ora a me costruire un percorso di identità per questa formazione che ogni anno si ricostituisce non come una formula matematica, ma come un organismo vivente che vede i migliori musicisti di tutto il mondo trovarsi e condividere il piacere di fare musica insieme. Musicisti provenienti dalle migliori orchestre, ma anche solisti affermati, componenti di gruppi da camera o piccoli ensemble».
Quale la sensazione che ha salendo sul podio della Lucerne festival orchestra?
«Quella di avere di fronte un pubblico che, abituato ad ascoltare i grandi della classica, è esigente e preparato, concentratissimo nell’ascolto e capace di reazione emotive straordinarie a fine serata. Ogni volta, poi, lavorando con i musicisti dell’orchestra trovo una grande voglia di fare musica insieme e un entusiasmo non comune nel lavoro di scavo delle partiture. Accanto ai nomi storici ho voluto strumentisti della Filarmonica della Scala. Milano e Lucerna sono le mie due case musicali di questi anni e la collaborazione tra il teatro milanese e il festival svizzero sarà sempre più stretta: la Filarmonica ogni anno sarà in cartellone a Lucerna».
A ottobre porterà poi la Lucerne festival orchestra per la prima volta alla Scala.
«Abbiamo deciso che ogni anno la tournée di ottobre dell’orchestra, quella che si conclude con la residenza a Shanghai, partirà proprio da Milano e dal palco del Piermarini».
Quale il percorso identitario che vuole costruire con la Lucerne festival orchestra?
«Un percorso che tiene inevitabilmente presenti le radici e la storia portando avanti i cammini dedicati a Gustav Mahler e Anton Bruckner. Su questi si innesta poi un nuovo filone, quello dedicato al Novecento storico con il discorso iniziato lo scorso anno su Igor Stravinskij».
Autore, Stravinskij, presente anche nel programma del concerto d’apertura del festival.
«Per raccontarlo non posso prescindere dal tema scelto per l’edizione 2018, quello dell’infanzia. Lo stupore e la sorpresa sono atteggiamenti tipici dei bambini, del loro modo di ragionare, dell’atteggiamento nei confronti della vita, una disponibilità dei sentimenti e della ragione che dovremmo ritrovare nell’ascolto della musica. Il tema dell’infanzia, dunque, giustifica la scelta di una pagina come L’uccello di fuoco di Stravinskij, che come tutte le fiabe ha un misto di stupore e mistero. Anche il Dumbarton Oaks in qualche modo è un gioco perché contiene una citazione dal Falstaff di Verdi: Stravinskij mette le stesse note che il musicista delle Roncole usa sulla frase «Se Falstaff s’assottiglia non è più lui», lo fa con il suo sguardo scanzonato e ironico. E pensando all’infanzia Wolfgang Amadeus Mozart è il primo autore che viene in mente per la semplice immediatezza della sua musica: per il suo il Concerto K491 ritrovo dopo un po’ di tempo il pianista Lang Lang».
Il secondo dei tre concerti che la vedranno sul podio è tutto dedicato a Maurice Ravel e alla danza.
«Una prima parte che è una riflessione in musica sul tema del valzer: mi piace accostare il Valses nobles et sentimentales a La valse come ha già fatto George Balanchine per il balletto creato nel 1951 per il New York city ballet, un omaggio a Johann Strauss e alla tradizione viennese attraverso la rilettura del compositore francese di questa forma di danza. Seconda parte con le due suite del balletto Daphnis et Chloé e con il celeberrimo Boléro. Ravel, così come Stravinskij, scrivendo musica per la danza fa diventare l’elemento ritmico quasi un narratore che prende lo spettatore e lo porta dentro la musica (e l’azione coreografica) in un racconto straordinario».
Non c’è la danza, ma l’opera, nel terzo programma.
«Sul leggio avremo due ouverture giovanili di Richard Wagner, quella del Rienzi che ricalca molto la tradizione del melodramma italiano che viene completamente superata, poi, in quella de L’olandese volante, pagina di una modernità sconvolgente che rivela il Wagner che verrà da li in poi. Il passaggio al Bruckner della Settima sinfonia, quella con la dedica dell’Adagio proprio a Wagner, diventa il sigillo del programma. Solitamente si accosta alla Settima una pagina drammatica di Wagner, ad esempio la Marcia funebre di Sigfrido, ma con Michael Haefliger, sovrintendete del Festival di Lucerna, abbiamo voluto due pagine più vitali perché il culmine deve essere proprio l’Adagio della Settima con la marcia funebre che celebra con una vera trenodia conclusiva la morte di Wagner».
Un momento, come accade in tutta la musica di Bruckner, intriso di spiritualità.
«Non c’è pagina del compositore austriaco che non includa momenti di sacralità e di profonda ispirazione religiosa, isole di meditazione che il musicista propone agli ascoltatori tra una narrazione e l’altra. Un aspetto, questo, che si coglie ancora meglio quando si visita l’abbazia di San Florian a Linz dove Bruckner era organista: ho diretto due concerti in quella cornice ed è stata un’esperienza spirituale intensa che ha illuminato tutto il mio percorso con le dieci sinfonie del musicista».
Bruckner, Stravinskij, autori che ha frequentato molto, come Rossini e Puccini, Bach e Mahler. L’elenco sarebbe lunghissimo…
«Una linea di eccellenza interpretativa, però, nasce da un incontro con un autore, non da una strategia pianificata. L’identificazione di un direttore e di un musicista con un autore nasce dal percorso di una vita. Sarà poi il tempo a stabilire se per un interprete ci sarà identificazione con un autore piuttosto che con un altro».
A proposito di bacchette, vi frequentate tra direttori d’orchestra?
«C’è un’amicizia con molti, indubbiamente, anche se la frequentazione, per gli impegni in agenda di ciascuno, è difficile. Apprezzo che nel cartellone di Lucerna ci siano molte tra le bacchette più importanti di oggi che stimo. Per questo quando sono arrivato con Alexander Pereira ai vertici del Teatro alla Scala ho voluto che i grandi nomi del podio fossero ogni anno in cartellone tanto per l’opera quanto per i concerti sinfonici nel limite delle loro disponibilità».
In Italia ci sarebbe spazio per un festival come quello di Lucerna?
«Non mancherebbero sicuramente luoghi e personaggi. Occorrerebbero, però, grandi disponibilità economiche per far girare una macchina così complessa. E oggi sappiamo come in Italia la questione finanziamenti sia un nodo problematico con il quale tutte le istituzioni culturali devono fare i conti».
La Scala ha conquistato l’autonomia, ha chiuso il contratto integrativo con i lavoratori, ha visto un notevole incremento degli sponsor. Qualche nodo sul fronte artistico, però, resta. Come affrontarlo?
«Alla Scala il progetto è quello di cercare di allargare il più possibile le possibilità di ascolto non solo per quantità di titoli e numero di recite, ma anche per quel che riguarda il repertorio nella ricerca dei cosiddetti titoli impossibili, senza citarli sappiamo tutti quali sono. È importante recuperare un ponte con il passato storico, con quel repertorio legato specialmente all’opera italiana che ha fatto grande nel tempo la Scala. Ci sono e dovranno esserci sempre in cartellone: noi cerchiamo di farli al meglio, con quello che il panorama musicale offre oggi».
Qualcuno, però, storce il naso.
«Non voglio abolire il dissenso, ma auspico che chi si sente di esprimerlo lo faccia in modo educato e costruttivo. Prendiamo l’anniversario rossiniano: leggo che c’è chi critica il fatto che non tutte le istituzioni musicali in Italia hanno ricordato in modo adeguato i 150 anni dalla morte del compositore di Pesaro. E mi arrabbio perché non posso pensare che ci si dimentichi l’enorme sforzo che è stato eseguire per la prima volta con complessi italiani la Messa per Rossini voluta da Giuseppe Verdi e che, al di la del giudizio sulla qualità dei singoli numeri, ha avuto il merito portare all’attenzione del pubblico dodici autori quasi dimenticati, ma di estremo interesse. In autunno, per celebrare i miei quarant’anni di collaborazione con la Decca, uscirà un cofanetto che comprende anche l’incisione di questa Messa».
Chiudiamo il cerchio, torniamo al Concertgebouw con il quale lei debuttò trent’anni fa a Lucerna. L’orchestra olandese in questi giorni è al centro delle cronache per aver licenziato il suo direttore musicale Daniele Gatti nel mirino per presunti casi di molestie. Quale la sua riflessione?
«È una situazione difficile e che dispiace molto».
Nella foto di Peter Fischli Riccardo Chailly sul podio della Lucerne festival orchestra