Al Festival della Valle d’Itria viene proposta dopo 300 anni la partitura riscritta da Leo per il pubblico partenopeo
Fabio Luisi sta facendo il percorso contrario. Contrario rispetto alla fuga di cervelli – chiamiamoli talenti, dato che parliamo con un direttore d’orchestra – dal nostro paese. «Dopo gli anni a Dresda, a New York e a Zurigo sono felice di tornare a casa, in Italia» dice il musicista genovese, classe 1959. Ritorno che vuol dire responsabilità. A Firenze, dove quest’anno Luisi ha iniziato il mandato di direttore musicale del Maggio. E a Martina Franca dove guida il Festival della Valle d’Itria. «E anche qui è un ritorno a casa, ritrovare una famiglia musicale perché negli anni Ottanta ero qui come pianista» racconta il direttore con in mano la partitura di Rinaldo. Quello di George Friedrich Haendel. Luisi lo dirigerà, da stasera, cuore dell’edizione numero quarantaquattro del Festival della Valle d’Itria. Regia di Giorgio Sangati che rilegge in chiave contemporanea la pagina immaginando la battaglia per la conquista di Gerusalemme come la lotta di star del rock, del pop e del metal per la conquista della hit parade musicale. Così Rinaldo (teresa Iervolino) è vestoto come Freddy Mercury e Armida (Carmela Remigio) cone Cher. «Ma nel rifacimento alla napoletana di Leonardo Leo datata 1718 in prima esecuzione in tempi moderni».
Che è, diremmo oggi, maestro Luisi, un copia e incolla di lusso.
Una sorta di pasticcio dove il 70% è musica di Haendel, quella scritta per Londra nel 1711, mentre il resto è musica di Leo, di autori della scuola napoletana del tempo, ma anche di compositori del calibro di Antonio Vivaldi. Un rifacimento con uno sguardo ironico, per adattare la partitura al gusto del pubblico di Napoli, abituato all’opera seria inframezzata da intermezzi buffi, con grandi cantanti che arrivavano con i loro cavalli di battaglia, le cosiddette arie di baule, che eseguivano all’interno dell’opera. Così gli spettacoli duravano quasi un’intera giornata – La serva padrona che oggi eseguiamo in una serata, allora era solo un intermezzo buffo all’interno di un’opera seria. Perché la musica era un modo per socializzare.
Una dimensione che oggi ha perso?
Lo ha fatto nel corso del tempo, diventando elitaria, per gente ricca o colta. E questa è una condanna che ancora oggi pesa sulla musica classica che deve ritrovare la sua originaria dimensione popolare. Pensiamo a Rinaldo, una stessa opera che sapeva parlare al pubblico di Londra e contemporaneamente a quello di Napoli. Certo per gli ascoltatori italiani del 1718 Leo inserisce nuovi personaggi, caratteri comici che aiutano a staccare dalla trama seria, in un continuo dentro e fuori dall’opera di Haendel. Giovanni Andrea Sechi ha setacciato gli archivi di Europa e America ed è riuscito a ricostruire in maniera legittima e verosimile il Rinaldo napoletano. Che resta, comunque, un work in porgress perché è possibile che dagli archivi escano nuove pagine riconducibili al rifacimento di Leo.
Perché (ri)proporre oggi questo Rinaldo?
Per il piacere di suonare per la prima volta, dopo esattamente trecento anni, una partitura mettendosi nei panni dei musicisti di allora. Ma soprattutto per dire che l’opera lirica non è qualcosa di museale perché ad eseguirla sono musicisti contemporanei che la suonano con lo sguardo di oggi, con la loro sensibilità di uomini del XXI secolo, facendola diventare in qualche modo musica contemporanea. E nell’arte, si sa, i grandi capolavori, quelli che attraversano indenni il tempo, sono quelli che ci mettono davanti a uno specchio e ci fanno riconoscere in essi, con le nostre paure e le nostre gioie. Rinaldo, forse, non è esattamente questo, racconta una storia, mette in musica i personaggi di Ariosto che conosciamo dai tempi della scuola. Ma vale la pena essere riascoltato.
La riscoperta di partiture rare è da sempre la forza del Festival della Valle d’Itria.
C’è da sempre una volontà di ricerca basata non solo sulla proposta di rarità musicali, ma anche sull’importanza dei titoli che vengono eseguiti nella storia del canto e del melodramma, partendo dagli inizi di Monteverdi e con una particolare attenzione all’opera napoletana e a quella preromantica. Su questa linea ho voluto continuare indirizzando su queste direttrici il mio lavoro di direttore musicale. Per tornare ad alimentare il fuco della tradizione. Il festival di Martina Franca è povero di mezzi, ma ricco di idee. E come musicista questo mi attrae molto.
Il rischio è che anche le fondazioni liriche siano povere di mezzi. L’altra sua casa italiana è il Maggio musicale fiorentino, in fase di ripartenza.
L’idea, insieme al sovrintendente Cristiano Chiarot, è quella di riportare il Maggio ai tempi di Vittorio Gui, per la varietà delle proposte, anche ardite. Abbiamo iniziato quest’anno con Cardillac di Hindemith, un pilastro del Novecento. Il prossimo anno apriremo con il Lear di Aribert Reimann. Ci saranno chiavi di lettura diverse del repertorio: fare un Don Carlo di Verdi tradizionale non è nelle corde del Maggio, occorre dire qualcosa di nuovo. Il cammino è lungo. Certo, lavorare in Italia non è sempre facile, ma la qualità artistica è molto alta. Anche per questo ho deciso di tornare e provare a convincere chi decide che l’arte e la cultura sono un patrimonio unico del nostro paese. Anche se vedendo quello che accade in politica e nella società forse ce lo siamo dimenticati.
Articolo pubblicato su Avvenire del 12 luglio 2018
In alto Fabio Luisi (Balu photography), sotto il Rinaldo a Martina Franca (foto Fabrizio Sansoni)