Scala, Fidelio sulla catena di montaggio

Al Teatro alla Scala Chung esalta la partitura di Beethoven Dentro una fabrica dismessa la regia di Deborah Warner

L’impressione, al Teatro alla Scala, è di essere su una catena di montaggio. E non solo perché Deborah Warner sceglie di ambientare il suo Fidelio in una fabbriva dismessa, tra colonne di cemento armato sgretolate e saracinesche arrugginite: fabbrica riconvertita a prigione, un lager moderno dove un tempo si produceva in serie. L’impressione di essere su una catena di montaggio viene guardando il cartellone scaligero, che in questi giorni ripropone l’allestimento dell’opera di Ludwig van Beethoven che inaugurò la stagione il 7 dicembre 2014.

Un nuovo titolo ogni quindici giorni, giorno più giorno meno. Un calendario fitto di prove in sala, nei laboratori Ansaldo e sul palcoscenico del Piermarini. Senza sosta. Un’occhiata al calendario: il 3 aprile ha debuttato Don Pasquale di Donizetti, il 15 il sipario già si alzava su Francesca da Rimini di Zandonai e l’8 maggio era già pronta Aida di Verdi. Tregua lirica, ma in mezzo tanti concerti, compreso il Festival di musica sacra a Pavia. Il 5 giugno sipario su Fierrabras di Schubert, adesso (dal 18 giugno) – mentre continuano le repliche dell’opera ispirata ai paladini di Carlo Magno – in scena c’è Fidelio mentre alla porta bussa Il pirata di Bellini, titolo attesissimo che mancava dal 1958 quando lo cantò Maria Callas.

Si produce a ciclo continuo e il teatro si apre quasi ogni sera. Proprio come in una catena di montaggio. Che produce cultura e ad alti livelli. Anche se l’impressione è che ogni tanto il meccanismo si inceppi. E capita che a volte l’esecuzione musicale non sia all’altezza delle aspettative. O che l’allestimento necessiti di un rodaggio che arriva e si compie nel corso delle recite. Premessa doverosa a questo discorso: al Teatro alla Scala si chiede sempre il massimo tanto che uno spettacolo che in altri teatri “passa” tranquillamente – accolto anche trionfalmente – a Milano viene guardato con un po’ di sufficienza, con un tono da «sì, ma si poteva fare di meglio».

E questa è l’impressione che resta uscendo dal Fidelio in cartellone sino al 7 luglio (era capitato anche cn il Fierrabras di Schubert diretto da Daniel Harding) con la bacchetta di Myung-Whun Chung. C’è qualcosa di incompiuto alla fine, quando la libertà trionfa, quando Florestan può riabbracciare la moglie Leonore che, nei panni maschili di Fidelio, è riuscita a scovarlo nei sotterranei della prigione e a consegnare alla giustizia il suo carceriere. Manca un’intesa piena e quasi millimentrica tra orchestra e palco. Che si ottiene provando e riporvando. Tanto che a funzionare meglio è il primo atto, musicalmente e scenicamente.

Primo atto che parte subito con la pagina più attesa quando in cartellone c’è l’unica opera scritta da Beethoven, la Leonore n.3 che, pronti via, Chung mette a inizio serata con le mezze luci in sala. Scelta legittima perché la grande ouverture è una delle quattro scritte dal musicista per la sua opera, frutto di revisioni continue e di rifacimenti per arrivare nel 1814 alla sintesi perfetta del singspiel dove musica e dialoghi parlati raccontano una parabola sulla forza della vita. Un grido di libertà che la Scala a ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali ha voluto dedicare, alla presenza della senatrice a vita Liliana Segre, alla memoria di Vittore Veneziani, maestro del coro costretto alle dimissioni nel 1938 per le sue origini ebraiche, e di Erich Kleiber, che si rifiutò di dirigere proprio Fidelio per solidarietà con Veneziani.

Inno alla libertà la Leonore n.3 che solitamente è messa a metà del secondo atto, nel cambio scena, un passaggio dal buio alla luce draccontato con evidenti rimandi al finale che arriverà. Suonarla subito, a freddo, un po’ la penalizza perché non consente all’orchestra di scaldarsi tecnicamente ed emotivamente. Chung, comunque, la restituisce nella sua compiuta perfezione e nella sua bellezza, così come fa con tutta la partitura metendone in evidenza il respiro sinfonico e i crediti con la musica che verrà piuttosto che i debiti con il passato.

Voci, invece, stilisticamente in bilico tra passato e futuro. Quella wagneriana di Ricarda Merbeth disegna una Leonore drammatica e cupa, alla quale, forse, manca l’incosciena dell’amore che fa correre rischi grandi per chi si ama. Altro wagneriano è Stuart Skelton che ha, però, qualche difficoltrà nella grande aria del secondo atto di Florestan. Mozartiane le voci di Eva Liebau e Martin Piskorski, intensi nel restituire i tormenti d’amore della coppia Marzelline e Jaquino. Come mozartiana è la voce di Luca Pisaroni, poco inquietante e minaccioso (e dunque non ben calato nella parte) Don Pizarro. Perfettamente beethoveniano, invece, Stephen Milling, umanissimo Rocco.

Tutti vestiti come personaggi di un film di Ken Loach. Perché sembra uscita da qual mondo, da quell’immaginario legato alle lotte sindacali in Gran Bretagna la regia poco convincente di Deborah Warner, apprezzata regista, premio Oscar della lirica per un intenso Billy Budd, ma qui protagonista di una lettura incompiuta esteticamente e drammaturgicamente.Pur facendo un ottimo lavoro sui cantanti la Warner sembra non riuscire a giustificare la trasposizione contemporanea della storia, scelta che nulla aggiunge al già forte messaggio beethoveniano. Primo atto tutto sommato riuscito, secondo spazialemente incomprensibile anche per il mancato cambio di scena (lo spartiacque della Leonore n.3) che unifica gli abissi nei quali Leonore scende per cercare il marito e il cortile dove avviene la liberazione dei prigionieri: tutto accade in uno dei tanti spazi abbandonati della fabbrica i cui muri vengono abbattuti da un popolo in rivolta (anche qui dall’estetica molto thatcheriana) e dentro il quale nel finale, con un femomeno meteorolologicamnte inspeiganile, nevica.

Nelle foto Brescia/Amisano Teatro alla Scala il Fidelio di Ludwig van Beethoven