Intervista al soprano che chiude una carriera di 45 anni «Ora solo concerti e lezioni. E soprattutto farò la nonna»
L’ultima parola che canterà sul palco, coincidenza singolare, sarà «Addio!». Norma saluta il padre e si avvia con l’amato Pollione al patibolo. Poco dopo calerà il sipario. E allora l’addio alle scene per Mariella Devia sarà definitivo. Sabato 19 maggio al Teatro La Fenice di Venezia il soprano ligure, regina del belcanto, chiude la sua carriera di interprete con Norma di Vincenzo Bellini. «Norma che cantavo da piccola ascoltando i dischi in casa. Norma alla quale ho detto molte volte no. Poi dal 2013 l’eroina di Bellini ha segnato l’ultimo tratto della mia carriera». Quarantacinque anni in scena. Il debutto nel 1973 a Treviso con Lucia di Lammermoor dopo la vittoria al concorso Toti Dal Monte. In mezzo i più importanti teatri del mondo. «Ma ora ho deciso di dire basta».
Come è arrivata la decisione di congedarsi dalle scene, signora Devia?
«Alla mia età sarebbe anche abbastanza normale: il 12 aprile ho compiuto 70 anni dunque non credo che sia un addio prematuro. Sono sempre stata una donna timida e riservata e oggi, ancora di più, sento il desiderio di tranquillità, non mi va più di stare lontana da casa per lunghi periodi. In palcoscenico ci sto bene, ma il lungo tempo delle prove inizia a farsi sentire».
Una decisione sofferta?
«Sofferta no, direi meditata. Ho iniziato a pensarci durante l’ultimo anno e sono arrivata serenamente alla conclusione che era giunto il momento. Non mi sono mai data una scadenza perché la tenuta della voce non è una cosa che si può programmare a tavolino. Ho pensato di salutare ora, in un momento in cui sono ancora in forma, anche per lasciare un buon ricordo nel pubblico».
Quale il segreto della sua carriera così longeva e sempre ad alti livelli?
«La voce è un dono di natura. E come tale va coltivato e salvaguardato attraverso lo studio e l’allenamento, ma anche attraverso le scelte del repertorio. Ho detto tanti no, sin dall’inizio della mia carriera quando, subito dopo il debutto in Lucia, mi hanno offerto Traviata. Ho detto tante volte no a Norma, pensavo addirittura di non affrontarla, poi nel 2013 mi ha convinta Michele Mariotti».
E sarà il personaggio di Bellini l’ultimo ruolo che interpreterà in scena. Perché proprio Norma?
«Perché sul piano musicale ha una linea melodica stupenda. E poi perché quello della sacerdotessa è un personaggio affascinante per un’interprete: Norma è una donna a tutti gli effetti, vive il tormento d’amore, lotta, ama i suoi figli, ma vorrebbe anche ucciderli perché figli dell’uomo che l’ha tradita. Poi in lei prevale l’amore – non fa come Medea – e li salva, sacrificandosi: un gesto che la rende un gigante».
Quali gli altri ruoli che ha amato?
«Lucia, naturalmente, lo sono stata per tanto tempo dal debutto nel 1973 all’addio nel 2006. Elvira dei Puritani è quella che più porto nel cuore. Poi è arrivata Sonnambula e sono arrivate le regine di Donizetti, la Bolena, la Stuarda ed Elisabetta del Roberto Devereux, ma anche Lucrezia Borgia. Non dimentico Rossini specie per Amenaide in Tancredi e Adele ne Le comte Ory. Forse avrei potuto fare qualche Mozart in più, ma non è capitato».
E c’è qualche ruolo che ha dovuto affrontare, magari controvoglia?
«Diciamo che sono stata molte volte Gilda del verdiano Rigoletto pur amandola relativamente. Ho cantato ruoli, specialmente di Donizetti, che forse non erano il massimo, penso a Elisabetta al castello di Kenilworth o ad Adelia, partiture che non conoscevo quando me le hanno proposte, ma che ho cercato comunque di affrontare con impegno e passione, la stessa che mi ha portato a studiare musica».
Quando è stato?
«Da ragazzina. In casa avevamo alcuni dischi che ascoltavo cantando insieme alle interpreti. Mi riusciva abbastanza bene e ho deciso di provare l’esame di ammissione al Conservatorio di Milano: avevo 16 anni e mi presero così lasciai Chiusavecchia per il capoluogo lombardo. Poi Napoli e Roma per completare gli studi».
La sua famiglia come l’ha presa?
«Diciamo che non erano tanto entusiasti, ma mi hanno sempre sostenuta. Poi quando hanno visto che la carriera decollava sono stati contenti. Anche se non lo hanno mai detto troppo forte: siamo liguri…».
Quale è stato il momento in cui ha capito che ce l’avrebbe fatta?
«Non subito. Ci è voluto un po’ di tempo. Ma è stato forse meglio così perché ho avuto tempo di meditare, di studiare, di formarmi, di creare il mio repertorio. La prima tappa importante è stato il debutto al Metropolitan di New York con Gilda in Rigoletto: era il 1978, avevo trent’anni. Da lì sono venuti i teatri importanti come Monaco di Baviera, Vienna, la Scala, ma anche gli altri teatri italiani che all’epoca erano tutti eccellenze».
Oggi non è più così?
«Sono pochi i teatri che ce la fanno a sopravvivere in modo dignitoso e con produzioni di valore artistico. La mancanza di fondi si fa sentire».
Dirigerebbe una fondazione lirica come Cecilia Gasdia, nominata sovrintendente dell’Arena di Verona?
«Assolutamente no. Mi basta la burocrazia che incontro quelle poche volte che, fuori dal palcoscenico, mi avventuro negli uffici: non oso immaginare come potrei affrontare tutti i nodi che mi troverei sul tavolo. Preferisco dedicarmi all’insegnamento».
Come vede le giovani generazioni di interpreti?
«Un po’ sperse: fanno molti master, ascoltano molte persone, molti consigli. Occorrerebbe, invece, che ascoltassero un po’ di più loro stessi, senza paura di far fatica».
Guardando ai suoi 45 anni in scena a chi deve dire grazie?
«Alla mia insegnante Jolanda Magnoni. A mio marito, Sandro Verzari, un uomo intelligente, un musicista che ho avuto la fortuna di avere a fianco. Ci siamo sposati giovanissimi e siamo stati l’orecchio esterno l’uno dell’altra: io studiavo, lui mi ascoltava e mi consigliava e voleva che facessi lo stesso con lui quando si esercitava con la tromba. Da quando è scomparso la mia voce critica è Silvia Silveri, con la quale studio».
Cosa farà dopo il 19 maggio?
«Alcuni concerti in giro per il mondo, lezioni di canto. Ma soprattutto la nonna».
Nelle foto Mariella Devia in Norma al Teatro la Fenice (foto Michele Crosera)
Intervista pubblicata su Avvenire il 29 aprile 2018