Riccardo Chailly riporta alla Scala il capolavoro di Donizetti che il regista torinese ambienta nel mondo del cinema
Un’opera da camera in versione kolossal cinematografico. L’idea ci sta. Quasi un esperimento per vedere l’effetto che fa. Davide Livermore ci riprova dopo aver fatto del Tamerlano di Handel un noir, un film di spionaggio ambientato nella Russia di Stalin. Per il Don Pasquale di Gaetano Donizetti, nuova produzione del Teatro alla Scala (repliche sino al 4 maggio, il 19 aprile diretta alle 20 su Rai 5 e sugli schermi del circuito cinematografico All’opera) sceglie invece la commedia all’italiana, il cinema di casa nostra, quello che racconta storie di vita quotidiana con un sorriso spesso malinconico.
Che è poi la cifra del capolavoro di Donizetti, una beffa ai danni di Don Pasquale che decide, a settant’anni, di prendere una giovane moglie destinando una vecchia zitella al nipote. Inutile dire che il vecchio sarà smascherato e l’amore di Ernesto e Norina trionferà. Vicende che da inizio Ottocento traslocano negli anni Cinquanta, in pieno boom economico. Sempre a Roma, come da libretto, ma questa volta tra la Cinecittà delle comparse in costume e la Stazione Termini, rifugio di chi ha passato la notte in bianco. Frammenti della città eterna, ruderi e giostre di un luna park di periferia, dove passato e presente convivono. Tanto che le scene (disegnate dallo studio Giò Forma) e i costumi (i figurini che sembrano usciti da una sfilata di Alta moda sono di Gianluca Falaschi) diventano elemento drammaturgico prima che decorativo.
L’effetto, anche grazie alle proiezioni dal sapore neorealista della Capitale vista dall’alto, è assicurato. E non disturba la musica (pregio non da poco, ma Livermore prima di essere regista è stato cantante) la regia in bianco e nero che cita il cinema di Fellini e Rossellini, di De Sica e di Germi e del Visconti di Bellissima e che imparenta i personaggi più ad Anna Magnani, Tina Pica e Vittorio Gassmann (la Lancia Aurelia bianca che vola nei cieli della Capitale guidata da Norina è la stessa de Il sorpasso) che alle maschere della commedia dell’arte. Il rischio, forse, nel racconto ipercinetico di Livermore è quello del troppo: troppe idee, troppe scene e controscene, troppa umanità. Perché quella raccontata da Donizetti è sì una commedia umana tragicomica, ma è anche un racconto intimo, fatto di sfumature, anche di leggerezza che a volte, nella lettura portata avanti da Livermore con coerenza e in perfetta sintonia con Riccardo Chailly, si perde.
Dal podio Chailly propone un Donizetti tutto d’un pezzo, dal sorriso più austero che spensierato. Un suono compatto – dopo qualche isolato dissenso a inizio del terzo atto per i volumi scelti, il direttore ha alleggerito il peso orchestrale – che a volte le voci di Ambrogio Maestri (Don Pasquale), Rosa Feola (Norina), Renè Barbera (Ernesto) e Mattia Olivieri (Malatesta) faticano a bucare.
Nelle foto Brescia/Amisano Teatro Alla Scala Don Pasquale
Articolo pubblicato su Avvenire del 5 aprile 2018