Stefano Montanari sul podio metallaro per caso

Il direttore d’orchestra romagnolo racconta il suo look dark     e l’approccio filologico e rigoroso a Moazrt a Rossini

La “colpa” del suo look da metallaro del podio è, dice, «di mia moglie». Sino al 2005, prima come violinista e poi come direttore d’orchestra, Stefano Montanari ha portato «gli abiti ufficiali che, però, ho sempre trovato scomodi per poter far musica in libertà». Poi un giorno, prima di una recita de Le nozze di Figaro di Mozart a Bergamo, la moglie Stefania – violinista che di cognome fa Trovesi, figlia del celebre jazzista Gianluigi – si presenta con un paio di pantaloni in ecopelle nera. «Mi disse che era ora di finirla con vestiti troppo formali». Lui, romagnolo classe 1969, nato e cresciuto in una famiglia contadina, non se lo è fatto ripetere due volte chiudendo giacche e cravatte nell’armadio. E da allora ogni volta che sale sul palco infila pantaloni di pelle, magliette e stivaletti. Orecchino. Anelli «che prima, quando ero violinista, non potevo portare». E quando si siede al clavicembalo per accompagnare i recitativi infila la bacchetta nel collo della maglietta, sfoderandola all’occorrenza come una freccia. «Nessun intento provocatorio, però, perché sul podio vesto come vesto nella vita di tutti giorni».

Anche la musica classica, maestro Montanari, ha bisogno di un nuovo look?

Di un nuovo pubblico sicuramente. Se l’immagine può aiutare non dico di no perché l’estetica oggi ha un peso notevole. Ma non dobbiamo mai perdere di vista il contenuto, ovvero la musica: quello che faccio con gli anelli e i pantaloni di pelle lo farei anche con giacca e cravatta. Tanto più che certe operazioni se rimangono solo di facciata, non sorrette dalla qualità, alla lunga non reggono.

Abbigliamento moderno e approccio dal sapore antico, filologico.

Da quando ho scoperto come si affronta la musica antica applico questo metodo a tutto ciò che mi capita di suonare. Un metodo che presuppone un grande lavoro preparatorio fatto di conoscenza del compositore, del periodo storico, della prassi esecutiva del tempo, del contesto in cui il brano è nato. Uno studio che tiene presente gli autografi e le edizioni critiche senza, però, rinunciare alla costruzione di una propria idea della pagina. Ecco perché quando dirigo un’opera per la prima volta immagino che sia stata scritta il giorno prima: potrebbe sembrare presuntuoso, ma prima della prima non ascolto nessuna incisione a costo anche di fare errori, ma in piena libertà di interprete.

Da dove nasce la sua passione per la musica?

Da una costrizione. I miei genitori, soprattutto mio papà, operaio appassionato di musica, hanno imposto a me e alle mie sorelle lo studio del pianoforte. Il mio primo insegnante è stato un musicista amatoriale del mio paese natale, Alfonisne, in provincia di Ravenna, un fisarmonicista che suonava nelle balere. Avevo sei anni e mezzo. Ho pianto per tre anni, poi scoppiò l’amore: a un mio zio di rientro dalla Cecoslovacchia chiesi come regalo una tromba, ma gliela rubarono in aeroporto, così mi portò un violino che fu il mio primo strumento: lo conservo ancora oggi. Erano gli anni Settanta e Ottanta e con papà andavamo ad ascoltare tutto ciò che si poteva ascoltare a Ravenna. Ho studiato a Imola in Conservatorio: ho ancora le cassette con le registrazioni dei mie saggi che faceva mio padre con un enorme registratore Grundig.

E come è arrivata la prima volta sul podio?

Per caso. Sono uno che non sa dire di no e di fronte all’offerta di Bruno Dal Bon di Aslico di dirigere Nozze di Figaro non sono stato capace di rifiutare. Era il 2005 e tra momenti di sconforto e altri di gioia per il fare musica insieme ce l’ho fatta: ho imparato a gestire l’esuberanza del gesto e ho trovato il mio stile.

Stile rock?

È un’etichetta che mi sta stretta, tanto più che rock e pop hanno le stesse origini della musica classica: lo swing nasce dalla musica francese e inglese importata in America, il pop arriva dai songs del Seicento e se si mettono la batteria o il sintetizzatore su una musica di Vivaldi funziona comunque. Questo a dire l’attualità della musica classica che a me piace suonare a colori. Che non vuol dire a tinte forti, ma con molte sfumature.

In agenda tanto Mozart. E il suo repertorio dal Barocco si sta sempre più spostando in avanti.

Ogni volta con Mozart scopro sempre qualcosa di nuovo. Di recente al San Carlo di Napoli, dopo tanto Rossini buffo, ho diretto il Rossini serio del Mosè. Ora sento che è arrivato il tempo di Verdi e del suo Falstaff, del melodramma italiano del Novecento, magari con il Puccini del Trittico, per approdare poi allo Strauss di Elektra.

Quando non lavora che musica ascolta?

Poca musica classica. Sono cresciuto con i Led Zeppelin, i Pink Floyd, i Queen e i Genesis e sono poi passato a Sting e agli U2. Con i miei figli ascoltiamo gli Iron Maiden e gli AC/DC: Alfredo ama l’heavy-metal e suona la batteria, Edoardo suona il flauto traverso. Non so se faranno i musicisti, ma con mia moglie abbiamo voluto che conoscessero la musica al pari dell’arte e della letteratura. Dispiace vedere che in Italia siamo indietro sul fronte dell’educazione musicale e spesso, girando il mondo, mi sento in imbarazzo a parlare della nostra situazione culturale: all’estero aprono orchestre e noi le chiudiamo, nel mondo aumentano i finanziamenti pubblici e privati e da noi ci sono i tagli.

Articolo pubblicato su Avvenire del 3 aprile 2018