Popolizio porta Verdi ai tempi delle serie tv

L’attore debutta nella regia lirica con l’opera tratta da Schiller A Roma Masnadieri dark diretti da Roberto Abbado

Giuseppe Verdi ai tempi delle serie tv. Quelle che tengono incollati al piccolo schermo o al monitor del pc milioni di persone con un abile e calcolato mix di storia e fantasy che racconta vicende di uomini molto simili a noi. Che poi, a ben vedere, è anche la formula vincente delle opere del compositore di Busseto. L’amore spesso impossibile, le lotte per il potere, il conflitto tra generazioni, il dolore e la morte non hanno tempo, raccontano di noi sia che abbaino come sfondo un castello medievale o un grattacielo di una delle nostre metropoli. Verdi ai tempi delle serie tv succede a Roma, al Teatro dell’Opera, dove Massimo Popolizio porta I masnadieri tra le atmosfere di Games of thrones. Così capita che i Moor, la famiglia che nella trama di Schiller raccontata in musica da Verdi si autodistrugge, assomigliano tanto agli Stark o ai Lannister della serie ideata da Benioff e Weiss. Indossano gli stessi abiti, si muovono nelle stesse lande desolate di Trono di spade. Grigie, livide a suggerire il gelo del cuore. Dove le lame di luce che arrivano improvvise non bastano a far sbocciare la speranza che, inevitabilmente, si spegne del buio che tutto inghiotte alla fine.

Ecco la tinta dell’opera che Verdi manda in scena a Londra nel 1847 (lo stesso anno di Macbeth, e si sente!) e nella quale ci sono il musicista che è stato e quello che verrà. Passato e futuro nella scrittura musicale nella quale riecheggiano Oberto  e I due Foscari  e dove già si intravedono Boccanegra e Don Carlo. Partitura sperimentale e forse per questo oggi poco frequentata: al Teatro alla Scala manca dal 1978 quando la diresse l’allora debuttante Riccardo Chailly (tornerà nel 2019 con Michele Mariotti sul podio), all’Opera di Roma non si ascoltava dal 1972.

L’ha riportata nella Capitale Roberto Abbado che dal podio fa sentire tutto il belcanto della partitura, non rinunciando a quegli squarci drammatici che affiorano dalla scrittura tormentata di Verdi. E che hanno suggerito a Popolizio, per la prima volta alle prese con una regia lirica (il carrello sul quale staziona sempre Carlo, il coro che compare dal basso, i ponti mobili a vista sono un omaggio al suo maestro Luca Ronconi), di spostare prudentemente indietro il calendario portando nel medioevo le vicende ambientate nel XVIII secolo e guardando più al teatro Shakespeare che allo sturm und drang di Schiller: così Francesco è deforme come Riccardo III, Massimiliano gravato dal peso delle responsabilità come Lear e Carlo dilaniato da dubbi come Amleto. Ne esce un mondo ancora più barbaro, dove a regolare i rapporti umani sono le passioni estreme. Quelle che spingono Francesco a imprigionare il padre, a lottare senza esclusione di colpi contro il fratello Carlo, arruolatosi tra i masnadieri, pur di ottenere il potere e l’amore di Amalia. Donna che sarà uccisa nel drammatico finale quando Carlo la pugnalkerà consegnandosi così alla giustizia per espiare le sue colpe.

Montaggio cinematografico per uno spettacolo che, seppur con qualche ingenuità e qualche errore tecnico, ha una sua coerenza. La stessa che offre la misurata e inappuntabile lettura musicale di Roberto Abbado, capace di unire in un disegno unitario una scrittura composita come quella de I masnadieri. Grazie anche alle voci di Roberta Mantegna, uscita lo scorso anno dalla Fabbrica del Teatro dell’Opera e già autorevole protagonista per tecnica e temperamento nei panni di Amalia, Riccardo Zanellato (musicalissimo Massimiliano), Artur Rucinski (Francesco di carattere) e, con qualche difficoltà in più per dover fronteggiare una parte impervia come quella di Carlo, Stefano Secco.

Nelle foto di Yasuko Kageyama Opera di Roma I masnadieri

Articolo pubblicato su Avvenire del 28 gennaio 2018