Il baritono festeggia vent’anni di carriera tra Italia e Usa raccontando il suo amore per il musicista «ancora attuale»
«Nato a Costantinopoli? Straniero! È poeta? Sovvertitor di cuori e di costumi!». Le accuse per condannare Andrea Chénier – che ascoltate oggi suonano drammaticamente attuali – in scena le mette nero su bianco con la mano sinistra. Lo farà anche stasera per l’ultima replica dell’Andrea Chénier che il 7 dicembre ha inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala. Con la stessa mano che nella vita usa per scrivere (e per firmare autografi). «Sono mancino. E diciamo che forse è proprio per questo che faccio il cantante, perché i miei genitori quando avevo sei anni mi hanno fatto studiare pianoforte per sviluppare l’uso della mano destra». Sorride Luca Salsi che è Carlo Gérard. Il personaggio forse più complesso dell’opera di Umberto Giordano. Di certo il più tormentato, reso alla perfezione dal baritono nato a San Secondo Parmense nel 1975. Che sin da subito ha messo d’accordo pubblico e critica. «Bilancio più che positivo di questo mio primo Sant’Ambrogio scaligero» dice Salsi. «Di meglio non potevo sperare. Il 7 dicembre avevamo tutti gli occhi puntati addosso, ma abbiamo vinto la sfida. E ad ogni replica è andata sempre meglio».
Quale, Luca Salsi, il complimento più bello che ha ricevuto?
«Mi hanno detto che canto “all’antica e ricordo le voci del passato”. Un orgoglio per me che sono un cultore e un difensore della grande scuola di canto italiana. Noi interpreti abbiamo il dovere continuare la tradizione dell’Italia, il paese che ha inventato l’opera, sia dal punto di vista vocale che da quello dell’approccio a uno spartito. Perché anche nella musica oggi il rischio è quello della globalizzazione».
Verdi e Puccini, dunque, come il cibo o l’abbigliamento dei grandi marchi, fatti nello stesso modo in qualsiasi città del mondo?
«Nelle nostre opere c’è la nostra storia: i melodrammi di Verdi raccontano i sentimenti che vivevano gli italiani del Risorgimento, onore, rispetto, famiglia, valori validissimi ancora oggi. Per questo occorrerebbe farle studiare a scuola come uno degli esempi più alti di educazione civica».
Sarebbe una rivoluzione dato che spesso la scuola italiana trascura proprio l’insegnamento della musica.
«Se dimentichiamo il passato rischiamo di perdere la nostra identità perché l’arte ci dice chi siamo. L’Italia, poi, ha un patrimonio sterminato: teatri, musei, opere d’arte, capolavori della musica, architetture uniche al mondo che vanno tutelate e fatte conoscere».
Il 4 marzo andremo alle urne. Un appello alla classe politica?
«A chiunque andrà al governo ripeto che la vera grande rivoluzione per l’Italia deve partire dalla cultura, con la quale si può mangiare. La cultura non ha colori e non deve averli. Non sono mai stato d’accordo con chi sostiene che la cultura è di sinistra: è e deve essere di tutti, accessibile a chiunque, valore da tutelare e promuovere».
Lei lo fa cantando l’opera italiana in tutto il mondo. La valigia è già pronta per New York, dove ancora ricordano la sua impresa di due opere nello stesso giorno.
«Un’impresa che ha fatto parlare tutto il mondo, certo, ma anche un rischio perché ci vuole una certa dose di incoscienza, oltre che una tecnica ben salda, per cantare Ernani e Lucia di Lammermoor in poche ore. Lucia che è anche l’unica opera non verdiana che canterò nel 2018: sarà sempre al Met dove poi affronterò Trovatore e Luisa Miller. Tornerò in Italia a giugno per Don Carlo con Mariotti a Bologna. Poi sarò per tre volte Macbeth: a Firenze con Muti – il più grande direttore verdiano che mi dirige nella mia opera preferita, cosa chiedere di più? -, a Parma per l’inaugurazione del Festival Verdi e a Venezia con Chung. Nel 2019 arriveranno Simon Boccanegra e Otello».
Un nuovo capitolo della sfida di proporre le opere di Verdi così come scritte?
«Intendiamoci, non sono contro la tradizione, perché se ci sono belle note mi esalto anch’io. Il mio è un discorso di fedeltà musicale: mi piace trasmettere emozioni senza cambiare nulla di quello che è scritto perché in Verdi c’è già tutto».
Parma il 13 gennaio le consegnerà il Verdi d’oro.
«Riconoscimento che da cantante verdiano e cittadino di Parma mi rende orgoglioso. Ho scelto di vivere dove sono nato e cresciuto, anche se Parma è una città complessa che ti vuole bene quando fai bene è un po’ ti dimentica quando le cose girano meno bene».
Ha da poco festeggiato i vent’anni di carriera: era il 1997 ancora studente cantò La scala di seta a Bologna. Oggi si sente arrivato?
Non direi. Sento sempre di dover dimostrare qualcosa. Sorrido quando mi dicono che sono il più grande baritono del mondo. Certo, sono consapevole di cantare nei teatri più importanti. Ma i piedi restano ben piantati per terra: ogni volta che canto penso ai miei figli Ettore e Carlo, la mia prima ragione di vita, che mi danno la forza di fare tutto quello che faccio. E coltivo passioni oltre la musica, su tutte il tennis.
Guardando a questi vent’anni a chi si sente di dover dire grazie?
Ai miei genitori che mi hanno sempre sostenuto e hanno avuto l’intuizione di farmi studiare pianoforte. Che poi a 10 anni ho mollato perché preferivo giocare a calcio. Con gli amici, però, passavamo le serate a cantare Dalla e Battisti. A 16 anni sono entrato in un coro polifonico e il maestro mi ha consigliato di provare l’esame per il Conservatorio. Canto da vent’anni, ma non ho mai smesso di studiare: vado a lezione dal mio maestro Carlo Meliciani e quello che sono lo devo a lui. A lui e a Riccardo Muti che ho incontrato nel 2013 e che mi ha dato un metodo di lavoro sulla partitura che applico a qualsiasi opera interpreto.
Articolo pubblicato su Avvenire del 5 gennaio 2018
Nelle foto di Fabrizio de Blasio il baritono Luca Salsi