Su Rai3 il film di Mario Martone girato all’Opera di Roma con la straordinaria direzione del musicista milanese capace di raccontare la modernità del compositore
Non riesci a stare fermo sulla poltrona. È un continuo muoverti. Piccoli gesti. Le gambe che si accavallano una sull’altra, le braccia che non trovano la posizione. Hai in corpo un’inquietudine strana, nonostante ti stia attaccata addosso, come un peso, la lunga giornata di lavoro. Giornata anche segnata da notizie di affetti recisi dalla morte. Eppure quella che ti senti formicolare dappertutto è un’inquietudine vitale. Incontrollabile. Non per gli occhi, però. Che, invece, sono ben piantati sullo schermo del televisore. Fissi e immobili, per “sentire” con gli occhi. E non perdere nulla, nemmeno una nota. Sentire con gli occhi e, più che con il cuore, diresti per sentire con lo stomaco. Perché La traviata di Daniele Gatti – d’accordo, di Giuseppe Verdi, perché è lui l’autore che, però, in uno strano quanto necessario transfer si identifica e si sovrappone con il direttore d’orchestra nelle intenzioni, nel restituire una verità scomoda in una fedeltà alla partitura (proposta in versione integrale, senza tagli, con tutti i da capo) impressionante – La traviata di Daniele Gatti è così. È un pugno nello stomaco di quelli che fanno male e ti buttano improvvisamente le viscere in gola. È una sberla di quelle che ti lasciano a lungo il bruciore sulla faccia e nel cervello il fastidio e la rabbia di essere stato schiaffeggiato.
Così doveva essere ai tempi di Verdi, nel 1853 quando Traviata andò in scena alla Fenice di Venezia, il fastidio di vedere sul palco una storia come quella di Violetta Valery, raccontata da Verdi e Piave e prima da Alexandre Dumas che nella tragedia di Marguerite Gautier romanza la vita vera di Marie Duplessis. Storia di una prostituta che poteva benissimo essere una delle (tante) donne sfruttate (ieri come oggi? tema sempre attuale…) dai benpensanti che sedevano in platea. E cosi è l’unico modo, facendoci provare oggi quello stesso disagio con una direzione scomoda e mai rassicurante, per rendere attuale e presente al nostro presente la rivoluzione in musica di Verdi. Gatti lo fa con una direzione di una Bellezza ruvida e sconcertante, (ri)lettura, quella del direttore, che (ri)pensa la partitura da capo, radicalmente (ancora più di quanto fatto nel 2013 al Teatro alla Scala) come se (ri)suonasse per la prima volta. E, pertanto, da ascoltare così, con orecchie (e occhi) sgombre da incrostazioni del tempo, da abitudini consolidate, da «si è sempre fatto così» per lasciarsi tirare dentro in una storia che è (anche) la nostra. E scoprire che tempi, accenti, impasti, squarci drammatii sono quelli che il drammaturgo e regista Verdi voleva.
C’è tanto teatro – c’è tanta vita – nella direzione di Gatti della Traviata in versione film con la regia di Mario Martone andata in onda venerdì 9 aprile su Rai3 – e mentre su Rai1 c’era La canzone segreta, su Canale5 Ciao Darwin e su Italia1 Le iene, la lirica in prima serata ha raccolto 967mila spettatori e un 3.9% di share (l’opera si può ora rivedere su RaiPlay). Film girato al Teatro dell’Opera di Roma. Vuoto, perché la pandemia tiene ancora fuori il pubblico dalle sale. La platea svuotata delle poltrone (è il salone dove si tengono le due feste, prima quella raffinata – dice la musica – di Violetta, poi quella grossolana e volgare – lo dice sempre la musica che si fa quasi straussianamente decadente – di Flora), il palco (luogo della mente dove un letto sul quale gli uomini gettano i loro cappotti ricorda continuamente il mestiere di Violetta), i palchetti (le stanze della casa – la sua – di tolleranza dove la ragazza esercita), i corridoi, i foyer (dove si balla il valzer – la scrittura per banda è riochestrata da Gatti per archi, flauto e piano a quattro mani) diventano set, naturale (e ideale) scenografia per un racconto metateatrale, stratagemma registico che funziona sempre.
Qui solo a tratti, però. Perché Martone (che ha disegnato le scene recuperando materiali nei magazzini dell’Opera, mentre i costumi sono di Anna Biagiotti) sembra mantenersi un po’ in superficie, illustrando (bene), ma non scavando a fondo. Il teatro nel teatro c’è nella stanza di Violetta, nell’ultimo atto, che è dietro il sipario, cortina pesante che la separa dal vecchio mondo. E la campagna dove Violetta sogna una storia normale con Alfredo è fatta di quinte teatrali dipinte, sfacciatamente finte, fragili come la realtà (fatta di debiti per vivere senza prostituirsi) che Alfredo non vede, destinata a crollare nel drammatico incontro/scontro (così lo vogliono i tempi serrati di Gatti) tra Violetta (in pantaloni da cavallerizza) e Germont, che strappa quelle quinte dipinte lasciando il palco nudo nel suo scheletro di corde e americane. La società che vive di apparenza ha sconfitto la purezza, ha imbrigliato la prostituta redenta dall’amore tanto che Violetta nel drammatico Dite alla giovine (in uno spiazzante e marcato tempo di valzer) è imprigionata nel cappotto di Germont quasi fosse una camicia di forza.
Squarci di vita, come quello di Violetta che nel finale del secondo atto, disprezzata e pagata da Alfredo, canta nascosta dietro una tenda per la vergogna. Immagini forti, insieme ad altre forse meno riuscite o non sempre valorizzate al meglio dal montaggio che procede per stacchi netti più che per dissolvenze in un racconto, quello del regista napoletano, in un continuo dentro e fuori temporale tra ieri e oggi. Perché fili elettrici e luci (elettriche) di servizio del dietro le quinte non sono nascosti (come non è nascosto Roberto Gabbiani che dirige “in scena” il coro nel concertato finale del secondo atto), ma usati drammaturgicamente. Perché le riprese esterne (montate sul suono in presa diretta) sono a Caracalla (il duello tra Alfredo e il Barone) e in via Firenze, proprio accanto al teatro, dove passano le maschere del carnevale che Violetta agonizzante sente in lontananza, mentre sullo sfondo, in via Nazionale passa il bus. Ma non c’è niente che sovrasti la musica. Che ti arriva dritta allo stomaco.
Musica da ascoltare tutta d’un fiato con addosso un’inquietudine vitale – quella che non ti fa trovare la posizione sulla poltrona. Perché Violetta ha fame di vita, quella vita che sente sfuggire per la malattia che corre più veloce di lei. E per questo canta così voracemente. Così la vuole Gatti che stacca tempi rapidi (lasciando spazio in alcuni passaggi a squarci lirici di una poesia struggente), che chiede un canto nervoso e tagliente, senza lasciare respiro, perché chi ama (sapendo di avere troppo poco tempo per farlo) non vuole perdere tempo, corre e non ha fiato per dire le parole della vita. Gatti chiede all’orchestra dell’Opera (che risponde magnificamente) fraseggi articolati e affondi di suono pastoso e denso, di una modernità impressionante.
Modernità che non sempre trova un riscontro nelle voci “antiche” dei protagonisti. Lisette Oropesa, tante volte Violetta, ridisegna da zero il suo personaggio scarnificando (ma solo apparentemente) il belcanto per sbalzare (seppur con la sua voce antica che sicuramente starebbe a pennello a una Traviata della tradizione) il ritratto crudo e autentico di una donna affamata di vita che vede assottigliarsi il tempo per amare. Cosa che, con una voce fascinosamente screziata dal tempo, fa anche Roberto Frontali, ruvido Germont, capace di scolpire la parola verdiana tra canto e declamato. Cosa che, invece, non sempre riesce a Saimir Pirgu, fragile (anche in una voce che gira spesso in falsetto) Alfredo, convincente più scenicamente che musicalmente. Angela Schisano è perfetta per un Annina di carattere e determinata, che Martone vuole non semplice cameriera, ma come tuttofare (diresti quasi maitresse) di casa Valery.
Scorre la musica. L’ascolti con lo stomaco. E hai la certezza di essere di fronte a qualcosa di storico. A una direzione, quella di Gatti, che segna inevitabilmente un prima e un dopo. Verdiana come poche. Perché non ti fa stare tranquillo raccontandoti una storia dove l’umanità, la pietà, la compassione sono messe al bando. Perché (ci) racconta. Racconta a noi di noi. Capolavoro di Gatti, Interprete del nostro tempo. Tempo che si specchia nel drammatico, ma evocativo finale. Violetta muore sola, avanzando in proscenio verso il teatro vuoto, con solo il grande lampadario calato sul pavimento. Cade riversa sulla buca dell’orchestra. Vuota anche questa. Mentre la musica (che sembra venire da un altro mondo) si spegne in un silenzio, quello del teatro vuoto, nel quale risuona solo il tintinnio dei cristalli del lampadario che, sui titoli di coda, sale in alto, lasciando vuota la platea dove tornerà il pubblico. Effetto dirompente. Messaggio di speranza. A dire che la musica tornerà. E che gli affetti, seppur recisi, non muoiono.
Nelle foto @Fabrizio Sansoni Traviata al Teatro dell’Opera di Roma